Ada Colau è ripartita ieri pomeriggio da Bologna dopo un’intensa due giorni nel capoluogo emiliano. Mercoledì pomeriggio ha partecipato alla manifestazione «per i diritti di tutte e tutti» promossa dai centri sociali Tpo e Labás e dalle associazioni dei migranti. Alla sera si è confrontata nel cortile di palazzo D’Accursio con 500 persone in un’assemblea pubblica, organizzata dalla Fondazione per l’innovazione urbana, recentemente creata da Comune e Università di Bologna e presieduta da Raffaele Laudani, proprio con l’obiettivo di sviluppare più avanzate pratiche di democrazia locale.

Ieri si è incontrata col sindaco Virginio Merola e l’assessore Matteo Lepore, per discutere future collaborazioni tra le due città; e ha voluto visitare la Biblioteca delle Donne e l’hub dei richiedenti asilo di via Mattei. In mezzo a tutto questo non è mancato lo scambio con Coalizione Civica, esperienza politica «sorella» di Barcelona en Comú.

Questo viaggio in Italia cade in un momento politico particolare, in cui il nostro paese sembra essere diventato il «laboratorio politico» del nazional-populismo …
Non possiamo tollerare che nelle istituzioni ci siano persone che dicono cose inumane, come abbandonare i migranti in mare o discriminare le persone sulla base della loro etnia. In queste ore sembra che la scena sia occupata solo da Trump e Salvini. Hanno in comune il fatto di sfruttare il loro potere per creare tensioni sociali ed estrarne una rendita politica. Disumanizzano l’altro, criminalizzano il differente, perché non vogliono che ci identifichiamo con il suo dolore. Sono gli esponenti di un discorso dell’odio che vuole penetrare nei cuori e nelle menti delle società occidentali. Non possiamo permetterglielo. Che cosa possiamo fare? Unirci. Non lasciarci intimidire dalle paure prefabbricate. Non per «buonismo», ma per umanità e razionalità, dobbiamo creare un grande fronte comune contro la loro barbarie. Dobbiamo affondare le paure che sfruttano, non le navi cariche di esseri umani che, prima di ogni altra cosa, devono essere salvati e accolti.

Colpisce, proprio in queste ore, il fatto che siano i sindaci di molte città europee a far sentire con più forza e chiarezza la loro voce, per l’apertura dei porti e la creazione di canali umanitari, andando spesso a riempire un vuoto d’iniziativa politica.
Voglio ricordare come a Barcellona, fin dal primo giorno, ci siamo definiti come città-rifugio. Non ci possono essere cose più importanti che difendere la vita. Questo significa affrontare un conflitto, in un contesto difficile, contro i governi di destra, e le loro misure razziste di chiusura delle frontiere, in materia di permessi di soggiorno, di regolarizzazione, di riconoscimento del diritto di asilo. Contro i centri detentivi, vero e proprio buco nero dei diritti umani, che hanno realizzato o vogliono realizzare. Stiamo accogliendo migliaia di persone, garantendo loro i servizi fondamentali, per «hackerare» le politiche razziste degli stati. Questo è parte essenziale del nostro fare una politica diversa, non «in nome delle persone», ma facendo in modo che le persone siano protagoniste. Perciò la nostra proposta non poteva che essere municipalista, partire dalla prossimità, dal quotidiano. Abbiamo deciso di fare politica nella città, nel luogo della comunità, dove prossimo condividere e aiutarci reciprocamente, per cambiare nel concreto la vita di ciascuna e ciascuno. Le città sono lo spazio cruciale della politica di questo secolo. Forse gli Stati nazionali lo sono stati nel secolo scorso, ma adesso la loro storia è finita.

Avete vinto le elezioni nel maggio 2015 e manca ormai meno di un anno alla fine del vostro mandato, in Spagna si voterà insieme per il rinnovo del Parlamento europeo e delle Amministrazioni locali nel maggio 2019. È forse tempo di un primo bilancio?
Abbiamo fatto una cosa che sembrava impossibile. Dai movimenti sociali abbiamo provato a recuperare le istituzioni e ripensare la politica. Non bisogna banalizzare la democrazia formale, ottenerla è costato tantissimo, ma ha ormai raggiunto il suo limite e bisogna rigenerarla. In questi tre anni non solo stiamo dimostrando di gestire meglio le cose: abbiamo un Comune più trasparente e partecipativo, che ha messo al primo posto le persone e i loro diritti sociali. Ma non volevamo solo sostituire quelli che c’erano prima, volevamo proprio cambiare la politica. Siamo la prima Giunta che si definisce femminista, perché il nostro orizzonte è «femminilizzare la politica». C’è una questione di giustizia di genere, e una strutturale violenza patriarcale da sconfiggere, certo. Ma facciamo delle politiche che diano più potere alle donne, perché vogliamo una città più libera e più felice, per noi donne ma anche per gli uomini.

Negli incontri a Bologna ha insistito sulla necessità di sviluppare relazioni orizzontali, vere e proprie «reti di città», non solo di sindaci e di amministrazioni, capaci di essere attori protagonisti del cambiamento su scala transnazionale.
L’Europa è a un momento decisivo della sua storia, deve decidere che cosa fare, se dissolversi e fallire o rinascere e reinventarsi. Tutto è aperto, se ci impegniamo possiamo rifare l’Europa dal basso e farla diventare spazio di diritti e dignità. Torno sulle paure: l’errore delle sinistre tradizionali è non aver guardato le paure negli occhi, far finta che non ci fossero. Ci sono paure ragionevoli e legittime, ad esempio quella di non riuscire a garantire ai propri figli un futuro migliore. Bisogna nominarle. E cercare insieme le soluzioni. Le città sono lo spazio dove affrontarle, perché sono lo spazio dove l’altro non è uno sconosciuto, disumanizzato, è il mio vicino e la mia vicina. Possiamo trasformare qui le paure in speranze. Abbiamo una responsabilità enorme, di esercitare la speranza nelle nostre città, ricostruendo la politica democratica dal basso, femminilizzarla, cooperare. E fare della politica uno spazio di vita, non di crudeltà, competizione e sopraffazione.