Undici mesi dopo l’annuncio della normalizzazione dei rapporti che ha aperto la strada alla firma dell’Accordo di Abramo, ieri il presidente israeliano Isaac Herzog e l’ambasciatore degli Emirati in Israele, Mohamed Al Khaja, hanno inaugurato l’ambasciata di Abu Dhabi all’interno di un edificio che ospita la Borsa di Tel Aviv. Il mese scorso era stato il governo israeliano ad aprire l’ambasciata negli Emirati. Durante la cerimonia il rappresentante diplomatico emiratino ha insistito sulle caratteristiche comuni ai due paesi. Si tratta di «un’importante pietra miliare nelle crescenti relazioni tra i nostri due Stati» ha detto Al Khaija «gli Emirati arabi uniti e Israele sono entrambe nazioni innovative, possiamo sfruttare questa creatività per lavorare verso un futuro più prospero e sostenibile per i nostri paesi e la nostra regione». Da parte sua, Herzog, definendo «storico» l’Accordo di Abramo raggiunto con la mediazione della Presidenza Trump, ha auspicato che «altre nazioni che cercano la pace con Israele» seguano l’esempio di Abu Dhabi. Quindi ha ringraziato l’ex primo ministro Benyamin Netanyahu e il principe ereditario degli Emirati Mohammad bin Zayed per aver guidato il processo avviato grazie alla mediazione dell’Amministrazione Trump.

A seguito dell’accordo con gli Emirati, Israele ha normalizzato le relazioni anche con Bahrain, Sudan e Marocco. Stando ai proclami di Netanyahu, Donald Trump e dei nuovi partner arabi di Israele, altri paesi della regione avrebbero presto annunciato l’avvio di piene relazioni diplomatiche e la «pace» con lo Stato ebraico. Parlare di pace a proposito dell’Accordo di Abramo è quantomeno una esagerazione. Tre dei quattro paesi arabi (Emirati, Bahrain e Marocco) non hanno mai combattuto guerre con Israele. L’intesa in realtà è solo la rappresentazione di un nuovo «ordine regionale» in chiave anti-Iran, in sostanza una alleanza militare. Comunque sia l’Accordo di Abramo ha raggiunto solo una parte dei suoi obiettivi. Si è mosso a passi più lenti del previsto, come dimostra l’apertura dopo quasi un anno delle sedi diplomatiche. E l’Arabia saudita, più volte indicata come la probabile quinta nazione araba pronta ad intraprendere la strada della normalizzazione, invece ha tirato il freno lasciando intendere che i rapporti con Israele procederanno dietro le quinte e che per le relazioni diplomatiche ufficiali, alla luce del sole, occorreranno anche mesi se non anni. Lo stesso vale per l’Oman – che pure poco più di due anni fa aveva ricevuto l’ex premier Netanyahu in visita ufficiale – che qualche giorno fa ha gettato acqua sul fuoco delle aspettative israeliane.

A rallentare un processo che i suoi protagonisti volevano molto rapido, è stata proprio la questione palestinese che nei disegni di Israele doveva finire chiusa in un cassetto e dimenticata. Quante volte Netanyahu ha ripetuto nell’ultimo anno che gli arabi non condizionano più l’avvio di rapporti ufficiali con Israele a una soluzione per il popolo palestinese. E invece la questione dei palestinesi senza stato e sotto occupazione israeliana ha confermato ancora una volta proprio in questi ultimi mesi la sua centralità, in particolare lo status di Gerusalemme tutta sotto il controllo israeliano, inclusa la sua parte araba occupata nel 1967. La vicenda delle dozzine di famiglie palestinesi che rischiano l’espulsione dai quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan per far posto a coloni israeliani e l’offensiva aerea israeliana a Gaza hanno scosso l’opinione pubblica araba costringendo re e principi del Golfo a contenere l’entusiasmo per il nuovo ordine regionale sotto la guida di Tel Aviv. Gli Emirati che, a parole, proclamavano di aver strappato a Netanyahu la rinuncia (in realtà solo la sospensione) all’annessione della Cisgiordania allo Stato ebraico – «È stato raggiunto un accordo per fermare ulteriori annessioni dei Territori palestinesi», proclamava un anno fa Mohammed bin Zayed – sono poi stati costretti ad affermare un appoggio esplicito alla causa palestinese. E altrettanto, sia pure in forma blanda, ha dovuto fare la monarchia del Bahrain. Inoltre, man mano che nel corso dei mesi è apparso evidente che l’Accordo di Abramo avrebbe fatto ben poco per i palestinesi, i rappresentanti di Abu Dhabi e Manama hanno cominciato a collegare la normalizzazione alla prosperità economica. Nel frattempo, lontani dagli interessi strategici del Medio oriente, Marocco e Sudan sono rimasti ai margini. Khartoum, a cui erano stati promessi enormi benefici economici in cambio della «pace» con Israele, non ha tardato a rendersi conto che molte delle sue speranze sono destinate a rimanere lettera morta.