I torpedoni, autobus bianchi con l’insegna della Homeland Security, arrivano due, tre volte al giorno. Si fermano nella rotonda davanti al reticolato di confine e scaricano il loro cargo. I passeggeri sono i deportati di Trump, a volte 2-300 al giorno. Arrivano con l’uniforme in dotazione ai prigionieri dei centri di detenzione dove di solito hanno passato la notte prima di venire accompagnati a uno dei valichi – in questo caso quello di San Ysidro che divide i sobborghi meridionali di San Diego da Tijuana, la metropoli messicana che, rigonfia di un flusso costante di nuovi arrivati da sud, dal Centro America e dai Caraibi, preme brulicante sulla barriera de La Linea.

IN QUESTO TERRITORIO di confine le cronache di immigrazione sono storiche e drammatiche come quelle attuali del mediterraneo – comprese le migliaia di morti per stenti fra i migranti che tentano di attraversare il deserto in zone abbastanza remote per evitare le pattuglie. È una terra di confine meticcia e bilingue con una storia di contenziosi antichi e recenti. Un parco a tema delle contraddizioni e delle ipocrisie del capitale nell’era della globalizzazione, dove i flussi si incrociano: quelli dei braceros, i braccianti frontalieri assorbiti dall’agricoltura dell nord, e delle maquiladoras le fabbriche impiantate a sud dalle multinazionali per usufruire ugualmente della forza lavoro a costi stracciati.

E oggi una nuova categoria: i forzati del rimpatrio, paracadutati qui ad ingrossare le fila delle popolazioni transitorie di questa metropoli dalla quale attraversano il confine ogni anno ufficialmente 14 milioni di auto e 7 milioni di pedoni.

«SONO QUI DA MOLTI ANNI e da gennaio il flusso di deportati è aumentato a vista d’occhio» mi dice Maria Galleta, fondatrice di Madres y Familias Deportadas. Per accoglierli, in Messico sta crescendo una rete di associazioni, volontari e parrocchie che assistono la nuova popolazione di diseredati che va ad aggiungersi all’umanità sradicata che transita da Tijuana.

L’ufficio della Ong fondata da Galleta si trova a pochi metri dal valico di frontiera. «Deportano chiunque anche i naturalizzati quelli con carta verde e permesso di lavoro. Ogni minima infrazione può essere un pretesto per venire sbattuti fuori». Le deportazioni non sono un’invenzione di Trump. Sotto Bush e Obama c’erano retate ed espatri ma con Trump la retorica anti immigrati è diventata policy ufficiale intrisa del sovranismo anglosassone articolato dal «consigliere» Steve Bannon e applicata dall’attorney general suprematista Jeff Sessions. Le deportazioni sono dunque riprese con inedita foga.

A SAN DIEGO parlo con Enrique Morones, storico militante del movimento Chicano che dirige Border Angels, l’associazione che assiste i migranti lasciando scorte d’acqua sulle rotte che attraversano il deserto: «Nel mondo ci sono 250 milioni di immigrati clandestini. Negli Stati uniti sono 12 milioni ma la situazione qui è lievemente diversa da quella ad esempio fra Africa Medio Oriente ed Europa. Molti latinos qui hanno radici profonde, come la mia famiglia qui da 8000 anni. Non abbiamo attraversato il confine; il confine ha attraversato noi quando gli americani si sono presi queste terre».

Molti di quei 12 milioni sono giunti in America da neonati o bambini. Persone cresciute ed educate a nord del confine con titoli di studio, impieghi spesso un unica lingua parlata: l’inglese. Un milione circa sono studenti di università e medie superiori a cui Obama aveva concesso una amnistia temporanea, ora anche il loro destino è incerto. Ufficialmente le autorità puntano a rimuovere «elementi criminali»: violenti, membri di gang, spacciatori. Di fatto chiunque abbia avuto anche una multa non pagata oggi è passibile di arresto ed espulsione immediata.

«Si tratta di persone che a volte hanno vissuto in Usa da 40 anni» spiega Galleta, «che hanno studiato e lavorano in Usa, hanno famiglia…una vita». Da quando a febbraio Guadalupe Garcia de Rayos, residente a Phoenix da 21 anni è stata caricata su un cellulare e depositata a Nogales, lasciando in America i due figli adolescenti, la politica dell’immigrazione è ufficialmente entrata nell’era Trump.

LE DEPORTAZIONI SOMMARIE sono diventate all’ordine del giorno. Sui barrios ispanici da qualche mese è calata una cappa di paura, la consapevolezza che per milioni di persone una giornata iniziata nella routine quotidiana può concludersi al di la del confine in una città straniera e in mano un sacchetto con gli effetti personali.

È accaduto a José Mares, padre single che a febbraio è uscito dal rivenditore di gomme diLancaster in cui da anni lavorava per prendere un caffè, ma non ha fatto a tempo a berlo. Al LA Weekly ha raccontato di essere stato fermato da agenti federali, caricato in auto e portato in cella a Camarillo, poi Los Angeles e ancora un trasferimento a Santa Ana. Ora di sera era oltre confine in un paese che non riconosceva. Ragione ufficiale dell’espulsione, un procedimento per detenzione di stupefacenti quando aveva 17 anni. A casa da sola è rimasta la figlia Desiree che aveva cresciuto da solo dall’età di 4 anni. Da Maria Galleta passano ogni giorno persone incredule, sotto choc per il trauma dello sradicamento e dalla separazione da famiglie e lavoro.

MOLTI INSISTONO che devono recarsi in ufficio o al lavoro quel giorno stesso, che li aspettano alla scuola dei figli. Anche l’accompagnamento, però, può essere a rischio. Proprio davanti alla scuola media della figlia, gli agenti hanno ammanettato Romulo Avelica Gonzales a Los Angeles. Il video girato dala bambina singhiozzante è diventato virale.

Stando ad un rapporto del Migration Policy Institute solo nella provincia di Los Angeles 489000 minorenni hanno almeno un genitore «clandestino». Quasi tutti i ragazzi – 410000 – sono cittadini americani grazie allo ius soli. In caso di deportazione rimangono soli, con parenti o a rischio di affidamento.

MARIA ACCOGLIE TUTTI con un panino e un cambio di vestiti. Cerca di attutire il colpo: «Soprattutto gli uomini non riescono ad accettare la loro nuova realtà. Per loro è impossibile immaginare di tornare a lavorare per 150 pesos al giorno (meno di 8 euro) quando di la ne guadagnavano dieci volte di più. Nella loro mente c’è posto per un unico pensiero: tornare, tornare, tornare».
Nella complicata geografia del confine i deportati si muovono come zombie, spesso vagano in prossimità del muro, molti, senza casa, finiscono per abitare nel canale di scarico che lo costeggia – el bordo – a volte semplicemente alla ricerca di una tacca sul cellulare americano, un filo di campo che è l’ultima flebile connessione ad un mondo una famiglia…una vita precedente. «Il mio consiglio è di non riprovare a passare il muro», dice Maria che cerca di recuperare gli abitanti del bordo indirizzandoli ai centri di accoglienza che cominciano ad ospitarli. «Se vengono catturati una seconda e terza volta rischiano tre anni di carcere. Consiglio loro di portare qui anche moglie e figli».

QUESTO LEMBO DI MESSICO «così lontano da dio, così vicino agli Stati uniti» è da sempre cesura fra primo e terzo mondo, che qui si lambiscono e sanguinano; oggi si ritrova anche prima linea dinnanzi all’America trumpista – nella linea diretta di fuoco delle provocazioni.

A breve sulle alture di Otay Mesa, in vista delle baraccopoli messicane di Lomas Taurinas, è prevista l’ultima iniziativa di Trump, una fiera campionaria della segregazione: è qui che una decina di aziende sono state invitate a costruire ognuna un campione di dieci metri di muro onde assegnare l’appalto per la tanto invocata barriera inespugnabile. Ne dovrebbe venire scelto uno – che come da bando di concorso dovrà risultare «esteticamente gradevole dal lato americano».

IL MURO sarebbe uno schiaffo lungo 3.000 km destinato ad esacerbare antiche ferite e rancori mai sopiti in questo sudovest meticcio e bilingue. Oltre che con il Messico, la deportazione promessa a gran voce di 12 milioni di persone, presagisce lo scontro frontale con stati che hanno puntato sulla convivenza e l’integrazione di popolazioni ispaniche spesso maggioritarie (come a Los Angeles) o sul semplice pragmatismo di economie che dipendono dalla forza lavoro.

I governatori di California ed altri stati hanno chiesto formalmente di non effettuare arresti almeno nei pressi di scuole e ospedali. La richiesta è stata seccamente respinta da Washington.

LA RICETTA DI TRUMP invece è la militarizzazione della questione, con l’arruolamento di 13.000 nuovi agenti di frontiera e la conferma delle deportazioni. Sessions ha già annunciato la riapertura delle prigioni private sconfessate da Obama. E nel settore alcuni degli appalti più lucrativi sono quelli per i Cie in cui sono detenuti gli immigrati. Ora molti vi arrivano vestiti da lavoro, con tute da meccanico o da lavoratori edili che indossavano nei cantieri dove sono stati prelevati.

«È orribile ciò che sta facendo» riflette Morones a San Diego. «Abbiamo avuto cattivi presidenti, ogni paese ne ha avuti. Ma non riesco a pensare a molti altri leader che abbiano articolato un messaggio odioso e distruttivo come quello di Donald Trump. Ricordiamoci che qui gli immigrati non sono gli indiani, abitanti originari. Non sono i neri trascinati qui a forza, ne i latinos, da sempre su queste terre. Gli unici davvero immigrati sono gli americani di origine europea».