Davanti a 10 Downing Street, da mercoledì sera dimora di una nuova premier, è il consueto andirivieni di speranzosi potenziali ministri.

A Westminster tutti i Tories girano con il cellulare ben carico nella saccoccia accertandosi di non averlo silenziato per errore. La chiamata sognata tutta la notte potrebbe arrivare da un momento all’altro.

Per alcuni era già arrivata a poche ore dall’insediamento di Theresa May. In particolare quella della designazione più controversa: il Boris nazionale. Johnson agli esteri – lo stesso che ha paragonato di recente l’Ue a Hitler – è una nomina che stride con l’immagine di May come personalità politica franca e refrattaria all’intrigo di palazzo. La notizia è stata accolta a livello internazionale con un misto di sgomento e rassegnazione, giacché la reputazione del neo Foreign Secretary, provetto gaffeur e casinista, in più artefice principale della traumatica uscita dall’Ue non per convinzione ma per puro tornaconto personale, è ormai arcinota.

Il sorriso dilaniato con cui il portavoce del dipartimento di stato americano ha accolto la notizia della nomina di Johnson ben riassume la reazione dell’alleato transatlantico alla notizia.

La stampa internazionale riecheggia di risate e sconcerto. Contraltare dell’elevazione di Johnson è il colpo di scure con cui si è reciso il machiavellico (nell’anglosfera è decisamente un insulto) Michael Gove dal dicastero della giustizia. Ci si può leggere il disgusto della figlia di un pastore protestante per i tradimenti. Al fido Chris Grayling, che le ha gestito la breve campagna per la leadership, vanno i trasporti.

Per arginare il rischio di pasticci urbi et orbi di Johnson, la costituzione di una specie di triumvirato-Brexit. In un ambo di nomine dal sottotesto «volevi la bicicletta? pedala» gli si affiancheranno gli ultrà eurofobi David Davis – personaggio della destra del partito inviso a Cameron, (per lui su misura un segretariato Brexit) e Liam Fox per cui si è creato il segretariato di stato per il commercio internazionale. Fox è un Lazzaro miracolato da May: già ministro della difesa fu costretto alle dimissioni anni fa per essersi portato un amico in giro per meeting internazionali riservati.

Alla vista di questo trio, le cancellerie internazionali avranno avuto un brivido di terrore giù per la schiena.

Sarà anche il modo di dimostrare la propria fedeltà al «Brexit is Brexit», ma questi sono nomi sufficienti a cestinare la reputazione di May come di ragionevole e misurata operatrice. Il resto delle nomine non lascia dubbi.

Lo chiamano rimpasto, ma questo è un nuovo governo, che segna una cesura netta con lo stile e la cultura del predecessore David Cameron attraverso lo smantellamento di quasi tutte le sue figure chiave, a parte quella di Jeremy Hunt, per la gioia dei giovani medici tirocinanti impegnati da mesi in un braccio di ferro sul contratto di lavoro, e quella del torvo Michael Fallon alla difesa.

Via George Osborne dall’economia, che passa all’ex-ministro degli esteri Philip Hammond, via John Whittingdale dalla cultura (rimpiazzato da Karen Bradley) e via Oliver Letwin, l’ideologo che aveva un forte ascendente su David Cameron.

Da May, che non è misogina come lo era Thatcher e ci si attendeva un governo-gineceo, arriva il ramoscello d’ulivo a Andrea Leadsom, cui va l’ambiente: tutto perdonato per lei, l’aver provato a correre alla premiership e soprattutto la gaffe sulle leader senza figli peggiori delle leader madri.

A un altro concorrente alla leadership, Stephen Crabb, non è andata altrettanto bene. L’ex ministro del lavoro e delle pensioni è stato visto allontanarsi furente dall’uscio di Downing Street, dopo aver appreso che il suo posto sarebbe andato a Damian Green.

Ad Amber Rudd vanno gli interni, mentre Nicky Morgan, alleata di Gove che dopo essergli succeduta stava perpetrando gli stessi suoi guasti al sistema scolastico, è stata sottratta l’istruzione (al suo posto va Justine Greening). Liz Truss si aggiudica il posto del reietto Gove alla giustizia.