«Vedi, volevano ammazzarci, ci volevano morti tutti, me e tutte queste povere bestie. E invece siamo qui. In perfetta forma. Abbiamo vinto noi. Banzai». Le «bestie», centinaia di mucche in apparente ottima forma, ci guardano e sembrano annuire, prima di gettarsi sul fieno appena distribuito. Dall’ultima volta che sono stato qui, subito dopo l’incidente nucleare, sembra di stare in paradiso.

SEMBRA INCREDIBILE, ma nel deserto nucleare di Fukushima, a pochi chilometri dalla centrale che continua, a distanza di sei anni, a contaminare uno dei suoli più fertili del Giappone, oltre al cervello dei suoi abitanti, c’è qualcuno che festeggia. Masami Yoshizawa, vecchio, irriducibile combattente di mille battaglie.
Dalle lotte studentesche era passato al sindacato, difendeva i precari, quando in Giappone erano merce rara e lui era uno dei pochi che aveva capito come sarebbe andata a finire la favola dell’impiego a vita.

Poi l’incontro con Kazuo Murata, un ex fricchettone che dopo aver venduto una casa di famiglia a Tokyo era andato a vivere a Minamisoma, sulla costa di Fukushima a coltivare ortaggi biologici e allevare le preziose «Kuroushi», le «Mucche Nere» che una volta macellate producono la prelibata – per chi ama il genere – wagyu. I due sembrano affiatati, e nel giro di pochi anni il loro ranch diventa una struttura modello.

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Foto di Marco Casolino

POI PERÒ, L’11 MARZO 2011, arriva l’Apocalisse, o quasi. Senza sapere assolutamente nulla di quello che stava succedendo, i due soci sono costretti a scappare: il governo ha ordinato l’evacuazione immediata. Ma non dice si che si tratta. «Fino dal primo momento volevo restare. Sono stato sempre un bastian contrario. E un curioso. Avevo capito che c’entrava la centrale nucleare, ma volevo restare per vedere cosa succedeva». Murata, meno sognatore, lo trascina via a forza. Fregatene delle mucche, gli urla, qui sta scoppiando il finimondo. Murata se ne farà subito una ragione: fiutato l’affare, sarà uno dei primi a mettersi d’accordo con la Tepco, la società che gestisce, si far per dire, la centrale di Fukushima: in cambio del silenzio e della rinuncia alla concessione, incassa 400 milioni di yen (quasi 4 milioni di euro) e inizia una nuova attività ad Aizu Wakamatsu, aldilà delle montagne.

YOSHIZAWA INVECE decide di tornare. Sfida polizia, Tepco, buon senso e radiazioni e ritorna al ranch, per salvare le «sue» mucche. «Non sono un moralista. Ho allevato mucche per poi macellarle per oltre vent’anni. Ma quando ho saputo che le volevano ammazzare così, a sangue freddo, quasi per punirle di essere sopravvissute e per non ritrovarsele in giro malate e contaminate ho deciso di ribellarmi. E mi sono messo di traverso».
Eccome. Prima ha piazzato un paio di ruspe all’entrata del ranch poi ha installato, con l’aiuto di alcuni simpatizzanti (che per anni hanno continuato ad aiutarlo e oggi sono qui a festeggiare con lui), un paio di telecamere per tenere sotto controllo la situazione (ma anche per trasmettere in diretta eventuali blitz delle autorità) e infine è tornato, come se nulla fosse, a fare il suo lavoro.

L’ALLEVATORE DI MUCCHE da macello che non verranno più macellate. «Già. Ecco perché abbiamo vinto. Perché io sono ancora qui, a fare il lavoro che mi piace e circondato da una natura che pian piano si sta prendendo la sua rivincita – dice mostrando i primi germogli di un pesco – mentre queste mucche, colpite dalla tempesta nucleare, alla fine vivranno più di quanto dovevano. Non sono commerciabili, quindi morranno di vecchiaia. Hanno vinto anche loro. E io sono diventato vegetariano».

Yoshizawa e le sue 300 mucche sono però gli unici a festeggiare. Tutto intorno a loro l’atmosfera è ben diversa. Katsunobu Sakurai, il sindaco di Minamisoma divenuto famoso per il suo appello su YouTube alla stampa straniera («venite qui, per favore, venite a vedere come siamo ridotti. Venite voi, perché la stampa nazionale ha paura e noi siamo abbandonati») è stato appena rieletto per un nuovo mandato, ma è disperato. «Abbiamo fatto l’impossibile per resistere, per non perdere le speranze. Ma non ce la facciamo più. Si può combattere contro la natura, sopravvvivere a terremoti , alluvioni e tsunami. Ma non all’imbecillità, all’arroganza, alla malafede, alla cocciutaggine degli uomini». Sakurai, come la maggior parte della gente – poca per la verità, meno del 30% della popolazione, e quasi tutti anziani – che è rimasta o è tornata, ce l’ha con il governo e con le autorità della centrale, che continuano ad alimentare speranze impossibili, a non mantenere gli impegni, a mentire spudoratamente. Un po’ come avviene da noi, gli dico, sperando di alleviarne le pene: «Già, ma qui siamo in Giappone, e non ci siamo abituati. Il concetto di autorità per noi è sacro, se perdiamo fiducia in chi ci guida è finita. Non si fa più nulla».

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Il nucleare illuminerà il nostro futuro (foto di Pio d’Emilia)

In effetti, non è che si sia fatto molto. E non parliamo solo dell’incidente nucleare, di fatto tutt’ora in corso nonostante il mantra governativo che sostiene il già avvenuto ritorno alla «normalità». Anche dello tsunami. Che vale la pena ricordarlo, provocò quasi 19.000 vittime.

DOPO L’INIZIALE REAZIONE – con il mondo colpito dalla forza di volontà, dalla dignità e dall’efficienza mostrata dal popolo giapponese – la ricostruzione si è come dire, fermata. Per carità, le strade sono pulite, non si vede una maceria in giro, i collegamenti, tranne piccole tratte, ripristinati.

Ma non c’è traffico, segno che l’economia non riparte. L’intera costa del Sanriku, che da Aomori scende giù fino a Fukushima sembra disabitata, anche se i dati ufficiali parlano di oltre il 50% della popolazione che è tornata a viverci e a lavorarci. Ma non è così.

KAZUO SASAKI, che guida un’azienda che lavora il pesce con oltre 200 anni di storia, per esempio, ha deciso di chiudere. L’avevo conosciuto pochi giorni dopo lo tsunami, che stava già lavorando, assieme a tutta la famiglia, per liberare la casa dalle macerie. «Ho resistito fino all’anno scorso – mi dice al telefono, quando lo chiamo, come ogni anno da allora, per salutarlo e sapere come sta – ora la casa l’abbiamo ricostruita e ci avanzano anche dei soldi, di quelli che abbiamo ricevuto. Ma l’azienda no, noin ce la faccio più. Io sono vecchio, pensavo di lasciare tutto a mio figlio. Ma ha preferito andare a vivere a Tokyo, a fare l’impiegato. Ci sto male, malissimo. Ma lo capisco. Abbiamo perso la speranza, le cose non saranno mai più come prima».

Perché? Voi non avete il problema nucleare…«Infatti, il nucleare non c’entra. C’entra il fatto che abbiamo tutti paura. E non ci sentiamo più protetti dalle autorità. Hanno sbagliato tutto, prima, durante e dopo lo tsunami. Non ci fidiamo più. E quindi ho chiuso». Se nel nord del Tohoku, colpito dallo tsunami ma non dall’incidente nucleare la situazione è così drammatica, nella regione di Fukushima è ancora peggio.

NEI PICCOLI PAESI attorno alla centrale, le radiazioni sono impercettibili: attorno a 0.4-0,5 microsievert l’ora. Come nel centro di Roma. Il governo dice che si può tornare, offre ulteriori incentivi a chi lo fa. Ma pochi lo fanno. «Solo vecchietti e sciacalli – afferma Kazuhiro Yoshida, che al momento dell’incidente lavorava per la Tepco ma si è poi dimesso diventando un attivista antinucleare – i vecchietti perché per loro venire a morire nella casa dove hanno vissuto tutta la vita è una cosa molto importante, gli sciacalli perché pensano che qui si possa ancora rubare, truffare, far soldi lavorando al nero per la Tepco…»

Al nero? «Beh, è risaputo che oltre la metà degli operai che lavorano all’interno della centrale, almeno un migliaio, siano precari e non qualificati. Molti hanno contratti regolari, ma poi ricevono una parte in nero, dai “mediatori” ai quali si affidano per trovare il lavoro. Mafiosi, che da subito dopo l’incidente sono arrivati qui e procurano la mano d’opera alla tepco. Se ne sentono di tutti i colori. Perfino che ci siano persone talmente disperate, ingenere debitori di grosse somme, che fanno doppi turni, con nomi falsi». Ed il bello, cioè il bruttissimo, è che si stanno giocando la vita, si stanno avvelenando, per niente. È notizia di questi giorni che il governo ha rivisto i tempi per il decommissionamento: ci vorranno ancora tra i 30 e i 40 anni. Ma la gente può tornare. A fare che?