Una macchia fucsia si prende Roma e decine di città italiane e lo fa come lo ha fatto sempre: ma quale pane e lavoro, noi vogliamo gioia e rivoluzione. Le piazze transfemministe sono così, arrabbiate, allegre, sfidanti, ironiche, provocatrici. Si canta, si balla perché se non si balla che rivoluzione è.

Questo vede chi attraversa i cortei di Non Una di Meno. La rabbia come arma, l’allegria come sfida a chi ci vuole grigie, la presenza sfacciata di adolescenti e studenti medie, con i cartelli più urticanti e più veri. C’era anche la Palestina nelle bandiere, gli slogan, la kefiah al collo. Dopotutto stava nel manifesto di chiamata alla piazza.

Eppure ieri a leggere i commenti a caldo di molti giornalisti e politici pareva che Nudm fosse la filiale di un’organizzazione salafita. Nell’epoca di Giorgia Meloni, prima donna a capo di un governo, che restringe i diritti di donne, poveri, migranti, trans stupisce che qualcuno si stupisca ancora come nei cortei di Nudm le bandiere palestinesi sventolino accanto ai cartelli per la sanità pubblica, le rivendicazioni economiche accanto a quelle per la libertà di scelta, donne e persone trans o queer si incontrino invece di scontrarsi.

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Significa che, dopo otto anni di movimento, c’è ancora chi non ha capito cosa significa transfemminismo: una visione complessiva della società che vede in guerre, massacri, colonialismo l’espressione più alta della violenza patriarcale. Dove a pagare il prezzo più caro sono le donne, vittime due volte per gli stupri di pace e quelli di guerra (chiunque li commetta, contro chiunque).

Così di fronte a un’onda nera che monta e tenta di annichilire le identità – siano etniche, religiose, politiche o di genere – i movimenti transfemministi sono capaci di offrire una speranza, attraverso l’intersezione delle lotte e un’idea di liberazione completa e complessiva. Per tutte e tutti.