Il fatto non sussiste: una formula assolutoria che più piena non potrebbe essere e che, specularmente, va letta come un giudizio di condanna contro quanti hanno imbastito sul nulla il processo contro l’equipaggio della «Iuventa» e, più ancora, contro l’idea del soccorso a mare dei migranti.

L’accusa era di quelle che dovevano servire a chiudere il cerchio della repressione e a giustificarne la moralità perché riusciva a trovare, in un concorso criminoso, la falsa pietà dei soccorritori e i loschi affari dei trafficanti.

Lo Stato, in una sequenza di governi di vario colore, correva il rischio di doversi vergognare, alla lunga, del trattamento dei migranti che evolveva di orrore in orrore con il sequestro delle navi soccorso e del suo carico umano lasciato a marcire fuori dai porti, i respingimenti, la reclusione dei lager dei centri di identificazione, la riconsegna ai torturatori libici e, infine tanto per aggiungere un supplemento di sofferenza, con l’assurda assegnazione di un porto il più lontano possibile dalla zona di salvataggio.

Questa vergogna, quindi, andava esorcizzata rivelando a tutti il connubio tra soccorritori e trafficanti, un connubio che andava certificato dal potere giudiziario ubicato proprio in quel di Trapani competente per territorio su Lampedusa.

Il fatto non sussiste, certo, ma la «Iuventa» sequestrata è inutilizzabile, gli imputati hanno trascorso ben sette anni sotto la spada di Damocle di imputazioni che prevedevano pene altissime e, soprattutto, si è impedito di salvare un numero incalcolabile di migranti, naufragati e annegati in quel Mediterraneo trasformato in un immenso cimitero.

Siamo però senza speranza. Questa assoluzione, pur consolatoria per noi, non farà rinsavire la destra al potere che proprio in prossimità delle elezioni del parlamento europeo ha rafforzato, in ambito comunitario, la repressione dei migranti.

Altre «Iuventa», temo, verranno.