Ieri, per la 223esima volta, il villaggio beduino palestinese di al-Araqib, nel deserto del Naqab, è stato demolito dai bulldozer israeliani. La volta precedente, la numero 222, risale a settembre 2023. La prima al 2010. I suoi residenti, 22 famiglie che da una vita si battono per restare sulle proprie terre (considerate da Tel Aviv proprietà dello Stato), dicono che lo ricostruiranno ancora.

Il loro destino è lo stesso di altre decine di migliaia di beduini, cittadini israeliani, a cui Tel Aviv non ha mai riconosciuto la proprietà di terre dove vivono da ben prima del 1948. Villaggi non riconosciuti, quindi illegali per Israele, sebbene precedano la sua fondazione: solo una delle tante forme di discriminazione tra ebrei israeliani e palestinesi israeliani e che somigliano alle pratiche militari e burocratiche che Israele implementa a Gerusalemme est e in Cisgiordania, occupate dal 1967.

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I BULLDOZER si sono visti all’opera, di nuovo negli ultimi giorni, anche in due campi profughi della Cisgiordania occupata, a Jenin e a Nur al-Shams a Tulkarem. Da mesi si susseguono violente incursioni militari che, oltre ad ammazzare, distruggono strade, infrastrutture e abitazioni private. A Jenin sono tornati all’opera anche i droni: mercoledì avevano ucciso tre giovani, combattenti delle brigate della città e del campo, Mahmoud Bassam Rahal, Ahmed Hani Barakat e Muhammad Abdullah al-Fayed.

Per loro ieri Jenin è entrata in sciopero, mentre in ospedale spirava un quarto combattente, identificato come Muhammad Hawashin, comandante del battaglione locale della Jihad islamica. Ai funerali è seguita la protesta, che ha preso forma sotto la sede della polizia dell’Autorità nazionale palestinese per chiedere il rilascio di alcuni combattenti arrestati. La manifestazione è stata dispersa dalla polizia dell’Anp, ennesimo caso di frattura politica tra la base e i vertici che da anni ormai sgretola il già scarso consenso dei secondi.

Tra i dieci uccisi dall’esercito israeliano nelle ultime 24 ore, anche il sedicenne Mohammed Salhieh, colpito nel campo profughi di Amari a Ramallah in un raid notturno tra mercoledì e giovedì. Scene simili a Tulkarem, nel campo profughi di Nur al-Shams: due palestinesi uccisi da un drone e altri due per strada. Tutti combattenti, tutti tra i 19 e i 23 anni. La Mezzaluna rossa ha denunciato l’impossibilità di soccorrere due di loro: per un’ora e mezzo l’esercito israeliano ha impedito alle ambulanze di entrare nel campo.

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E POI c’è il caso più eclatante, quello che ieri ha portato a 449 il numero totale dei palestinesi uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre (di cui 127 solo dall’inizio dell’anno). È successo a sud di Betlemme, vicino alla colonia di Elazar nel blocco di insediamenti di Gush Etzion: il 63enne Samah Zaytoun è stato ucciso da un riservista dopo essere stato perquisito. Nella borsa – dice l’esercito – è stato trovato un piccolo coltello. Il soldato ha detto di aver avuto paura di essere aggredito, seppur l’uomo non avesse in mano nulla: teneva le braccia alzate quando il riservista gli ha sparato addosso.

La famosa pratica dello shoot to kill stavolta però ha preoccupato lo stesso esercito che ha subito aperto un’inchiesta interna affermando che Zaytoun non rappresentava alcuna minaccia. La brigata coinvolta è la Hagmar, battaglione composto di coloni e utilizzato in Cisgiordania proprio a difesa degli insediamenti illegali, in un processo di simbiosi che ormai è totale: esercito, stato e movimento dei coloni sono la stessa cosa.