Quando martedì sera l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha votato la risoluzione non vincolante sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, erano passati sette giorni dall’iniziativa del segretario generale Guterres (l’attivazione dell’articolo 99 della Carta Onu) e poche ore dall’avvertimento del presidente statunitense Joe Biden all’alleato di ferro – molto poco amato – Benyamin Netanyahu: «(Israele) inizia a perdere il sostegno internazionale a causa dei bombardamenti indiscriminati».

BIDEN lo sapeva già come sarebbe finita: quel sostegno, già debole, è crollato. A favore hanno votato 153 Stati, tra cui alleati indiscutibili di Washington, dall’Australia al Giappone alle neo-atlantiste Svezia e Finlandia. Ventitré astenuti e dieci contrari.

Al Palazzo di Vetro è stata resa plastica la distanza siderale tra l’approccio statunitense e israeliano e quello del mondo. A votare per proseguire la devastazione di Gaza, «inferno in terra» nelle parole di svariate agenzie Onu, dieci paesi che rappresentano appena il 5% della popolazione mondiale: Usa, Israele, Austria, Repubblica ceca, Guatemala, Liberia, Micronesia, Nauru, Papua Nuova Guinea e Paraguay.

Il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen ha reagito sprezzante: «Continueremo la guerra ad Hamas con o senza sostegno internazionale». Più preoccupata è la Casa bianca che invia a Tel Aviv il consigliere alla Sicurezza nazionale Jake Sullivan (arriva oggi). Ad attenderlo il peso di numeri sempre più terrificanti: 18.608 uccisi accertati a Gaza in 68 giorni di offensiva, 1,9 milioni di sfollati (l’85% della popolazione), 51mila feriti.

Fanno il paio con immagini che raccontano la disperazione dei palestinesi: a Gaza piove, le tende si allagano, le persone con i piedi nel fango provano a liberarle con i secchi, le strade sono inondate per il blocco dei sistemi di drenaggio dovuto alla mancanza di carburante. Da Jabaliya, il campo profughi raso al suolo dalle bombe, arrivano le immagini di un ragazzino con l’acqua alle ginocchia, sotto la pioggia incessante, in braccio il corpo senza vita di un bambino.

E ANCORA, le immagini di una scuola dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) a Beit Hanoun, nel nord di Gaza fatta saltare in aria con l’esplosivo dall’esercito israeliano: si vede l’esplosione e il fumo nero che avvolge un luogo che era stato trasformato in rifugio da centinaia di sfollati, si sentono sullo sfondo le grida di giubilo dei soldati.

O le immagini pubblicate da al Jazeera di un’altra scuola, la Shadia Abu Ghazala di al-Faluja a nord: dentro un’aula sono ammassati dei corpi senza vita, uccisi da colpi di arma da fuoco, «stile esecuzione» dicono dei testimoni alle telecamere e raccontano di spari indiscriminati contro gli sfollati. Il video mostra i danni alla scuola, aule bruciate, banchi e sedie distrutti. Tra le vittime, morte per colpi sparati da distanza ravvicinata, ci sono anche donne e bambini, secondo le immagini della tv qatariota. Non ci è possibile verificare la veridicità dell’accusa.

E mentre le bombe continuano a cadere (quasi 300 gli uccisi nelle ultime 24 ore), continuano anche i combattimenti: ieri per l’esercito israeliano è stato il giorno peggiore, con nove militari uccisi dai miliziani di Hamas a Shajaiya. Sono oltre 110 i soldati morti a Gaza (secondo i dati ufficiali), di cui il 20% – riporta lo stesso esercito – colpiti da fuoco amico.

In tale contesto, le dichiarazioni delle organizzazioni internazionali finiscono spazzate via, ogni giorno più terribili, nel tentativo di superare l’assuefazione delle opinioni pubbliche mondiali. Per Gaza parlano di apocalissi, di distruzione peggiore di quella di Dresda nella seconda guerra mondiale, di catastrofe. È questo il termine utilizzato da una ventina di organizzazioni israeliane (da B’Tselem a Breaking the Silence, da Rabbis for Human Rights a Yesh Din) nella lettera aperta a Biden pubblicata ieri perché costringa Israele a porre fine all’offensiva.

Ci sperano poco i palestinesi: in un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (svolto in Cisgiordania e a Gaza) metà degli intervistati ritiene che l’attacco non finirà prima di qualche settimana. Dicono anche altro: in Cisgiordania il sostegno ad Hamas, al 12% a settembre, è oggi al 44%.

E se a settembre il 50% degli abitanti dei Territori occupati riteneva la lotta armata l’unico mezzo per la liberazione, oggi la percentuale sale al 63%, con un picco del 68% in Cisgiordania. Che nel silenzio continua a essere l’altro campo di battaglia, l’altra faccia dell’offensiva israeliana. Sotto forma e intensità diverse ma comunque distruttive.

IERI NE È STATA di nuovo teatro Jenin con una campagna di arresti di massa, casa per casa: 400 le abitazioni invase e perquisite, oltre cento arrestati e otto uccisi. E di nuovo bulldozer che, come nelle più recenti operazioni israeliane, hanno divelto le strade e distrutto edifici nel campo profughi. Le forze israeliane hanno circondato l’ospedale di Jenin, alle porte del campo, e bloccato le ambulanze: per ore gli è stato impedito di raggiungere i feriti.

Tra i detenuti ci sono anche membri del Freedom Theatre, fiore all’occhiello culturale e sociale del campo: il direttore generale Mustafa Sheta e quello artistico Ahmed Tobasi, a cui è stato arrestato anche un fratello. «Non sappiamo dove siano – dice il teatro – Le ultime parole che abbiamo sentito da Ahmed sono state: (i soldati) stanno andando di casa in casa, prendono tutti».

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Medici uccisi e arrestati, la sanità nel mirino

Sono almeno 296 i medici palestinesi uccisi a Gaza dal 7 ottobre, secondo il ministero della sanità della Striscia. A questi si aggiungono 134 membri dell’agenzia delle Nazioni unite Unrwa, 32 della protezione civile e uno dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Secondo l’ong Medical Aid for Palestinians, in oltre due mesi di offensiva israeliana, le strutture mediche di Gaza hanno subito almeno 200 attacchi. Di diverso tipo: bombardamenti su ospedali e ambulanze, chiusura delle cliniche Unrwa, accerchiamento e spari sugli ospedali. Sono almeno 70 i medici arrestati dai soldati israeliani e detenuti in luoghi sconosciuti.