Li vedremo, questa sera, confrontarsi secondo le regole e i canoni dei grandi duelli politici in cui in palio è il governo elettivo ed effettivo di una nazione. Sono i candidati alla presidenza della Commissione europea, l’esecutivo dell’Unione, espressi dai diversi schieramenti politici del Parlamento di Strasburgo: Socialisti, Popolari, Liberali, Sinistra e Verdi (gli euroscettici sono di fatto esclusi dal gioco). Li chiamano, «famiglie», questi schieramenti, a indicare un legame più obbligato che scelto, dove la dimensione e l’interesse nazionale restano in larga misura dominanti. Quanto agli antieuropeisti non riescono, appunto, a «fare famiglia».

Ora i candidati, Schulz, Juncker, Verhofstadt, Keller e Tsipras dovranno parlare a tutti i cittadini dell’Unione per convincerli della loro «visione». Almeno nella forma non è una cosa di poco conto. Fino a oggi i candidati all’Europarlamento si sono rivolti esclusivamente alle rispettive opinioni pubbliche e soprattutto per convincere gli elettori di quanto efficacemente avrebbero difeso nelle sedi europee gli interessi del paese di provenienza. Ora bisogna cimentarsi con un’argomentazione efficace su scala continentale e non si tratta solo di celebrare l’Unione o di denigrarla, ma di indicare quale possa e debba esserne il futuro.

Tutto questo non amplierà di molto i poteri effettivi del Parlamento, né l’autonomia dell’Unione nei confronti di quel Consiglio europeo attraverso il quale le sovranità nazionali contrattano tra loro e tengono sotto scacco le politiche dell’Unione. Secondo i rapporti di forze che tra queste sovranità intercorrono. E non è un caso che sia stata la più forte tra queste a mettere le mani avanti. Circa una settimana fa la cancelliera Angela Merkel, in una intervista alla Rheinische Post, faceva presente, Trattato di Lisbona alla mano, che è il Consiglio dei capi di governo a conferire l’incarico di presidente della Commissione, «tenendo beninteso conto del responso delle urne» e riconoscendo «un ruolo» ai candidati dei partiti europei. Ma non vi sarebbe alcun automatismo tra il successo elettorale e il conferimento della carica. Non è detto, insomma, che chi ottenesse la maggioranza nel Parlamento si vedrà garantita la Presidenza della Commissione.

Se, per assurdo, Alexis Tsipras conquistasse questa maggioranza è quasi certo che non andrebbe a occupare la presidenza di Bruxelles. Il potere intergovernativo glielo impedirebbe. Detto in altre parole le sovranità nazionali non vedono di buon occhio la democratizzazione delle istituzioni europee laddove questa rischiasse di sottrarre loro (e non potrebbe darsi in nessun altro modo) quote di potere. In questo senso l’esistenza di candidati che non sono di nomina governativa o intergovernativa dovrebbe andare incontro alla domanda di democrazia dei cittadini del vecchio continente senza avere, tuttavia, l’obbligo di esaudirla. Il rapporto diretto dei cittadini europei con un potere sovranazionale (che comunque esiste da un pezzo ed esegue con zelo i diktat dei governi forti) è visto come una probabile minaccia dalle élites nazionali. Le quali non sono disposte a rinunciare allo schema consueto dei rapporti internazionali: il cittadino rappresentato nello stato, lo stato rappresentato in Europa. È esattamente con questo schema che l’elezione parlamentare del Presidente dell’esecutivo di Bruxelles entra in un attrito potenzialmente forte. E decisamente promettente, almeno per quanti non si cullano nell’illusione che la «questione sociale» possa ricevere una risposta nazionale e che lo spazio delle sovranità statali costituisca l’unica dimensione possibile della democrazia passata presente e futura.