Alla fine non sono pochi gli spettatori che si lamentano di avere pagato più di un euro al minuto: noi abbiamo cronometrato un pezzo di 23’, un secondo di 20’, e un bis di un-minuto-uno (oltre ai biglietti a 50, ce n’erano però anche a 25 euro). Ma si sa, John Zorn bisogna prenderlo come viene: e anche fare il prezioso è funzionale a confermare il suo status di personaggio di culto. Di personaggi di culto poi non c’è solo lui: è un duo con il bassista Bill Laswell. E in ogni caso sono tre quarti d’ora scarsi ma eccellenti.

COL SUO SAX alto Zorn comincia con dei fraseggi sgraziati, poi con la respirazione circolare produce delle improvvisazioni sature, ossessive: sia come suono che come espressione viene da pensare ad un parossistico oboe tradizionale nordafricano; a tratti invece Zorn suona free in senso più tipicamente jazzistico. Laswell non si scompone: per quasi tutto il set continua come assorto a pizzicare placidamente il suo basso, melodico, a volte sognante. Nel secondo brano Zorn riparte più morbido, più lirico. Poi però nei venti minuti c’è di tutto, momenti espressionisti, inflessioni blues, fischi, schiocchi, lo strumento fatto suonare solo diteggiando e senza soffiarci dentro, e di nuovo il Nordafrica. Laswell è sempre flemmatico, tra quello che i due suonano non c’è per lo più una particolare relazione, ma questo scarto introduce un elemento di grande poesia.

Bill Laswell, foto Hiroshi Omhuna

IN CERTI EFFETTI e momenti di uso vocalizzante del sax è un po’ come se Zorn mettesse in scena dei personaggi: e Zorn esibisce una fantastica capacità di «intrattenere», come se stesse raccontando una storia, che si sviluppa attraverso situazioni diverse, salti di registro narrativo, che avvince l’ascoltatore e lo tiene col fiato sospeso. Un set nudo e crudo che se ce ne fosse bisogno ci ricorda quanto oltre ad essere il leader, il compositore, il creatore di progetti musicali che sappiamo, Zorn non secondariamente sia un sassofonista molto ferrato e di forte personalità.

IL DUO Zorn/Laswell era una delle proposte clou di JazzMi, il festival del jazz di Milano che si chiude oggi. Manifestazione monstre, di oltre duecento appuntamenti tra concerti, film, incontri con musicisti, dibattiti, eccetera, e il pubblico abbonda per tutto, e dà la sensazione che il jazz non sia un fossile. Con forse solo un problema: fra tanta offerta, ognuno in linea di massima va a vedere quello che gli piace già, e torna a casa contento. C’è un pubblico mediamente anziano e non in cerca dell’imprevisto per il quintetto di Enrico Rava e Joe Lovano, un altro piuttosto giovane per il solo un po’ solipsistico del sassofonista Colin Stetson, e uno di vecchi appassionati dell’avanguardia per l’Art Ensemble. Non c’è invece, un accostamento diretto di proposte differenti, e, nel pubblico, il confronto – e magari lo scontro – tra diversi gusti, orientamenti e generazioni.