Un nome solo, quello di Giovanni e, attorno, livelli di grigio e persone innominate. Che cosa sono i livelli di grigio in Voragine (Il Saggiatore, pp. 190, euro 19), romanzo d’esordio di Andrea Esposito? Sono lo spazio a disposizione dello sguardo di Giovanni, il protagonista, ma sono anche il riflesso delle azioni delle persone che lo circondano, innominati dall’innominabile ferocia e durezza.

VORAGINE è un romanzo acre eppure fortemente emotivo che trascende l’orrore per trasformarlo in una forma di passato accaduto, in una zona di puro spavento in cui la paura attraversa come un rumore bianco le pagine senza mai accadere del tutto, una sorta di citazione dello spavento.

ROMANZO DELLA FINE, ma anche dell’avvenimento della fine in cui il fondo – la voragine, appunto – resta uno spazio infinito di esplorazione: un’oscura cavità attraversata alternativamente in caduta libera o con lucida lentezza, dove il narratore descrive azioni, ripetizioni e strazianti conclusioni attraverso una lingua scarna e scivolosa al tempo stesso. Un racconto che si rifiuta di narrare l’orrore perché già immerso in quel disfacimento di fine millennio ormai impermeabile a ogni forma di confronto, apertura, lettura reale.

Voragine è un libro ambizioso sia per la cifra linguistica sia per il desiderio di dominare una forma di decadimento contemporaneo spesso relegato ai margini della narrazione o, peggio ancora, abbandonato ai futili discorsi di artisti contemporanei mainstream.
Da questo punto di vista, la sfida di Andrea Esposito merita attenzione ed è anche vinta in alcune pagine di grande efficacia e intensità.

TUTTAVIA, troppo spesso, il romanzo sembra avvolgersi attorno a un’estetica tenebrosa priva di reale spessore, una posa di per sé accettabile, ma fragile nell’insieme. Voragine è un libro aperto che rischia però di perdersi, di rendersi inconsapevolmente incompleto.
Costruito con un’abilità letteraria non comune sembra mancare della vibrazione letteraria stessa: occhieggia un linguaggio più cinematografico e perde presa nelle immagini che via via si fanno sempre più stanche e meno incisive.
Un romanzo a tratti acerbo, ma con già una misura precisa, forse un controllo eccessivo della forma nel momento in cui si pone il desiderio dell’informe, del perturbante. Un limite che fatica a rivelare la fiaba nera, ma che restituisce al lettore l’angoscia di un dolore che non è risolvibile e che tutto risucchia, l’eros come l’odio, la felicità come l’ardore.
Un romanzo che fa del flusso di coscienza l’intimità dark di una generazione rinchiusa al buio di una voragine infinita.