Il silenzio ha ragioni che la parola non conosce, sosteneva Italo Calvino. Zeman è calcio e silenzio, tanto che a Lecce, dove ha allenato, lo chiamavano «u mutu». Chi come noi lo ha intervistato a Foggia nella sua ultima stagione da allenatore ( Zeman il maestro è tornato Alias 4/9/2021) , sa quanto pesi quel silenzio prima di avere una sua risposta, sa anche che la sua voce si incrinò quando toccammo il tema dei carri armati russi a Praga nel 1968 per impedire la Primavera di Dubcek. L’anno successivo raggiunse in Italia suo zio Cestmìr Vyckpàlek, già calciatore della Juventus e poi allenatore delle giovanili del Palermo. Zeman a Praga non vi fece più ritorno, di qui il suo più grande rammarico, l’impossibilità di vedere i suoi genitori e sua sorella per circa venti anni. Ha una discreta cultura cinematografica, conosce registi cecoslovacchi degli anni ‘20 e ‘30, sul fronte letterario cita Milan Kundera e Vàclav Havel, su quello politico il Vietnam, piazza Fontana, Peppino Impastato, a Cinisi ha allenato, per la musica Battisti e Mina.

Zeman in campo non sbraita, non inveisce contro l’arbitro, non si abbandona a moine di sorta quando un suo giocatore segna, non soffre di vittimismo, anche se ne avrebbe ben donde. Quando assiste a errori arbitrali madornali, dice che certe cose non gli sono piaciute, non parla di complotti. A Zeman dobbiamo molte cose, oltre ai suoi loquaci silenzi, che spiccano in un mondo di ciarlatani: aver perseguito l’idea di un calcio spettacolo per far divertire il pubblico con il modulo 4-3-3. Inoltre, ha avuto il merito di puntare il dito contro « la farmacia entrata nel calcio». Negli ultimi anni, le morti premature di alcuni calciatori, forse potrebbero essere collegate anche a quelle «farmacie».

Il sistema
Al Boemo dobbiamo un’ultima cosa: aver accusato il Sistema. Un mondo organizzato dove prevalevano finanzieri d’assalto, banche, truffatori, ruffiani, corruttori, intrecci tra politica e calcio, tra Pallone e Potere, che spadroneggiavano nel «campionato più bello del mondo». Il Sistema, nella sua spietatezza, ha presentato un conto salato che Zeman ha pagato fino in fondo: «In queste stagioni drammatiche, la mia carriera è stata pesantemente frenata a causa delle mie prese di posizione…Me l’hanno fatta pagare cara, carissima, ma non mi sono mai pentito di ciò che ho detto o fatto. Ho difeso il calcio. Esiste una grande bellezza anche nel dire No».

«U mutu» ha parlato, ha detto tutto nell’autobiografia Zeman. La bellezza non ha prezzo (Rizzoli), scritta con Andrea di Caro, vicedirettore della Gazzetta dello Sport. Un libro piacevole, nelle cui pagine Zeman parla in prima persona, non cede mai ai fronzoli e alla retorica che nel calcio abbondano, merito anche della penna di Andrea di Caro, che ha avuto il pregio di stare a latere del Mister, per riprendere il titolo di un romanzo che Manlio Cancogni gli dedicò nel 2000.

L’autobiografia parte dal Zeman bambino figlio di un primario di otorinolaringoiatra in un ospedale di Praga, al quale il Partito comunista cecoslovacco aveva assegnato in una zona semicentrale un appartamento con due camere unite da un corridoio. È qui che Zeman affina la sua percezione dello spazio-tempo, elemento che caratterizza ogni sport. Il corridoio di casa diventa lo spazio dove il ragazzino gioca a hockey, a calcio, a pallacanestro, affina i movimenti coordinati oculo-manuali e oculo-podalici, che il Boemo riproporrà in tutti i suoi allenamenti, oltre ai famosi gradoni, sangue e sudore di tanti calciatori anonimi poi diventati campioni riconoscenti. Dalla finestra di casa, guardava gli allenamenti all’aperto della squadra di pallamano di Praga, che giocava in serie A, la sera con gli amici scavalcava il muro di cinta per entrare in campo e imitarne le gesta, non prima di aver azionato la pompa dell’acqua per far sciogliere il ghiaccio formatosi sul terreno di gioco. A scuola i suoi compagni di classe lo chiamavano «Pistone» perché non si fermava mai, praticava tutti gli sport. Venne naturale al termine del liceo classico frequentato a Praga, dove non si studiava latino e greco ma russo e francese, iscriversi alla facoltà di Scienze Motorie, che non portò a termine a causa della sua fuga in Italia un anno dopo l’invasione di Praga.

Zemanlandia
Gli studi li completò all’ Isef di Palermo, poi un lungo peregrinare tra squadre di pallavolo e pallamano dove faceva l’allenatore-giocatore con rimborso spese. L’approdo al calcio, dopo il corso a Coverciano come allenatore, dove conobbe Emiliano Mondonico, fu quasi inevitabile, avendo avuto lo zio campione di football nella nazionale cecoslovacca e nella Juventus di Boniperti. La sua prima squadra fu il Licata, che militava in serie C, quell’anno fece un campionato strepitoso, poi l’approdo più importante fu a Foggia, con la squadra degli sconosciuti prelevati dalle serie inferiori dal fido Peppino Pavone. Alla guida del Foggia inflisse sonore sconfitte alle grandi dell’asse Milano-Torino. Fu in Capitanata che avvenne la consacrazione di Zeman, il sodalizio con la città, lo Zaccheria pieno oltre ogni limite. Qui fu coniato il termine Zemanlandia e qui il 7 novembre del 2021 ha festeggiato le mille panchine.

Ritorno a Praga
A Foggia nell’agosto del 2021, ci disse che il Sistema gli aveva impedito di allenare le grandi squadre del calcio italiano, costringendolo a lavorare nelle serie minori. Non vi era rancore nelle sue parole, ma solo la consapevolezza di un tempo che scorre e non ritorna più. Ci confessò che vorrebbe tornare a vivere a Praga.

Oggi «u mutu» lo dice a voce alta, torna bambino e sogna, come fa nelle ultime righe del libro: «Ho settantacinque anni ma non me li sento: fosse per me continuerei a lavorare fino a novanta su un campo d’erba o sterrato, non fa differenza, guardando un pallone rotolare con intorno a me dei ragazzi che abbiano ancora voglia di ascoltarmi e di imparare. E qualcuno sugli spalti da far divertire». È questa la grande bellezza di Zeman, una bellezza che non ha prezzo.