«Io voglio circondarmi di freak, perché anche io in fondo mi sento un freak» mi dice Fabio, mentre le persone di fronte a noi ballano su una versione di The Imperial March (Darth Vader’s Theme) di Star Wars che mescola le sonorità delle vecchie console per videogiochi a quelle della cumbia, musica popolare colombiana.

Siamo a Genova, al Laboratorio Sociale Occupato Autogestito Buridda, seconda tappa di Zona Warpa, «la festa del videogioco ribelle e itinerante.» Fabio fa parte del Collettivo Warpo, il gruppo informale che ha ideato e organizzato questa festa, alla sua prima edizione nel 2023 e finanziata attraverso donazioni, senza sponsor. Ogni anno Zona Warpa vuole portare in tour per l’Italia uno studio di sviluppo straniero che viene da fuori dal mondo videoludico solitamente discusso, quello composto da Nord America, Europa, Cina e Giappone. Nel 2023 lo studio ospite è stato l’argentino Videogamo, e per dieci giorni la carovana di Zona Warpa ha viaggiato dalla Lombardia alla Campania, fermandosi quasi ogni giorno in una diversa città, in spazi occupati e autogestiti, o comunque in spazi che il Collettivo Warpo definisce «alleati», vicini al suo manifesto e lontani dalle istituzioni dell’industria videoludica.

La festa è iniziata il 9 giugno alla Cascina Autogestita Torchiera senzacqua di Milano per poi spostarsi al già citato LSOA Buridda di Genova, e dopo al Centro Sociale Autogestito nEXt Emerson di Firenze, all’associazione culturale Corte dei Miracoli a Siena, al locale Ottobit Art Lab a Montelupo Fiorentino e al Centro Sociale Occupato Autogestito Forte Prenestino a Roma, con la sua ultima tappa il 18 giugno a Napoli, all’Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo. Durante i pomeriggi gli sviluppatori di videogiochi hanno potuto presentare ed esporre gratuitamente le loro opere, e anche per questo la festa è stata seguita dalla casa di produzione cinematografica Hive Division, che ha colto l’occasione per iniziare a girare un documentario sulla scena videoludica indipendente italiana. Marco «Zughy» Amato ha per esempio raccontato il suo lavoro con il software libero, cioè quello che può essere liberamente studiato, smontato, rimontato, modificato e distribuito. Amato fa parte dell’organizzazione dietro a Minetest, nato come clone del celebre Minecraft di Mojang (Microsoft) nel 2010 ma nel frattempo cresciuto in uno strumento libero e completo per creare esperienze interattive. È anche cofondatore di Etica Digitale, collettivo di divulgazione dedicato all’etica nella tecnologia e nei lavori a essa legati. Ci sono stati inoltre laboratori dedicati a come creare e modificare videogiochi usando software liberi e facilmente approcciabili. Ma gli eventi non riguardavano solo i videogiochi. Andrea Donato, fondatore del progetto di promozione musicale Metazoa, ha raccontato come chi fa musica possa riprendere un po’ di controllo in un’industria fatta di piattaforme digitali predatrici, e Fabio del Collettivo Warpo ha spiegato come comporre musica usando una console considerata ormai sorpassata come il Game Boy di Nintendo, uscito per la prima volta nel 1989. Il programma serale prevedeva invece partite collettive a Dobotone, uno dei videogiochi di Videogamo, e musica dal vivo con, tra gli altri, il musicista argentino Nahuel «Naku» Berneri (Los Pat Moritas), produttore musicale e docente alla Point Blank Music School di Londra.

Al momento Naku sta sviluppando un videogioco per la vecchia console a 8 bit di Nintendo, il NES/Famicom, ma è anche il responsabile della cumbia di cui parlavamo all’inizio dell’articolo. Zona Warpa vuole rompere le barriere (quelle geografiche, quelle di ingresso…), vuole creare occasioni di incontro e mostrare come tutte le persone possano esprimersi con i videogiochi, con la musica e in generale con l’arte. Il nome della festa è una corruzione di quello delle aree «Warp Zone», le zone di teletrasporto presenti nel primo Super Mario Bros. di Nintendo, quello del 1985. «Warp» vuol dire piegare, rendere curvo (queer) ciò che un tempo era dritto (straight). Le Warp Zone sono infatti aree dove sembriamo capaci di piegare lo spaziotempo, perché qui possiamo saltare intere parti del gioco per arrivare più rapidamente e facilmente alla sua conclusione. E anche Zona Warpa sembra voler piegare (rendere queer, rendere freak) lo spaziotempo, almeno quello dell’industria videoludica. Ogni giorno le testate specializzate e i content creator promuovono videogiochi sviluppati da multinazionali per narcotizzare una classe lavoratrice scontenta e li raccontano solo o prevalentemente come prodotti industriali da consumare. Consumiamo videogiochi nel tempo libero dal lavoro per il capitale, costringendoci spesso anche nei mondi virtuali a svolgere azioni ripetitive, a imparare a seguire ed eseguire ordini, cioè a interiorizzare l’autodisciplina richiesta dal regime neoliberista. Oppure consumiamo videogiochi rubando tempo al lavoro, ma perché è solo a confronto col tempo perso in queste futili distrazioni che il monotono lavoro che svolgiamo per la società capitalista ci sembra invece importante e utile, come spiega Alfie Bown in Capitalismo & Candy Crush (Nero, 2019, con traduzione di Matteo Bittanti). Per questo il manifesto di Zona Warpa (disponibile come il resto delle informazioni su https://www.zonawarpa.it/) parla della necessità di «riprend il videogioco.» Insomma, di riprenderci i mezzi di produzione videoludica. «Credo negli atti di terrorismo poetico» ci dice Fabio. «Credo nella capacità dell’arte di bucare l’alienazione, spegnere il realismo capitalista [cioè l’idea che non esista alternativa al sistema capitalista, come spiegato da Mark Fisher] e riaccendere la speranza. Questi atti possono dimostrare che non è vero che il profitto è l’unica cosa che traina il progresso, che non è vero il concetto, alla fine molto cattolico, che siamo nati per soffrire. Noi dobbiamo buttare i semi nelle crepe del capitalismo, ed è in queste crepe che abbiamo fatto Zona Warpa».

Lo studio argentino Videogamo, ospite internazionale del 2023
Lo studio argentino Videogamo è stato l’ospite della prima edizione di Zona Warpa. Quando Videogamo è nato c’erano solo Máximo Balestrini, che si occupa della parte tecnica e del game design propriamente detto, e Hernán Sáez, che si occupa delle grafiche, del sonoro e del design degli hardware. I due ci raccontano di essersi conosciuti perché Sáez usciva con una sorella di Balestrini, e a un certo punto hanno iniziato a incontrarsi circa una volta a settimana, dopo il lavoro. Il loro primo gioco è stato Bicicletas: HOY, un video musicale interattivo rilasciato nel 2010 per il gruppo rock argentino Bicicletas. Ma la loro opera più nota è NAVE, un videogioco arcade, una cabinato da sala giochi, disponibile in un’unica copia costruita riciclando e modificando una vecchia macchina per videogiochi.

Come molte cose nella storia di Videogamo, questa particolarità di NAVE nacque quasi per caso. «Per un evento mettemmo NAVE in un arcade», ci racconta Balestrini. «Cominciammo a essere invitati a eventi per mostrarlo, la gente iniziò a chiamarlo ‘il cabinato viaggiante’…»

Piacque l’idea di questo videogioco disponibile in un solo esemplare giocabile solo in specifici posti e per un tempo limitato. In NAVE controlliamo un’astronave che deve resistere a ondate di nemici il più a lungo possibile mentre cresce contemporaneamente di potenza e di dimensioni, fino a riempire gran parte dello schermo. Da cinque anni fa parte dello studio anche Paloma Balestrini, un’altra sorella di Máximo, grande appassionata di NAVE: ha un tatuaggio del videogioco. Paloma si occupa di organizzare gli eventi e collabora ad altre fasi dello sviluppo, per esempio alla costruzione dell’hardware. «Per noi creare il gioco vuol dire creare l’intera macchina» ci spiega Sáez. Anzi, l’idea di Dobotone, il gioco portato da Videogamo a Zona Warpa, è nata proprio a partire dal sistema di controllo. «Stavo comprando pezzi per NAVE e mi trovai in mano questi joystick e mi piacque la sensazione che davano» ricorda Máximo. Dobotone (da «dos botones», cioè «due bottoni») è un party game in cui quattro persone si sfidano a una serie di brevissime sfide, una formula chiaramente ispirata alla serie WarioWare di Nintendo. Ogni persona impugna due controller, uno per mano, e ogni controller ha un solo tasto, unico modo per interagire con il videogioco. Intanto una quinta persona può modificare la partita ruotando una serie di manopole: può cambiare lo zoom e la gravità, rendere il gioco più lento o veloce… Un’altra cosa nata un po’ per caso, ci dice Videogamo, sperimentando con le impostazioni del gioco e scoprendone l’impatto. Anche se al momento esistono solo quattro esemplari di Dobotone, Videogamo vuole realizzarne una piccola tiratura limitata. Ma, come le altre opere di Videogamo, anche Dobotone non è nato con l’idea di fare un’opera commerciale per ottenere profitto. La filosofia di Videogamo, conclude Sáez, «è fare ciò che facciamo solo perché ci va.» Molto adatta a Zona Warpa.

Una prospettiva anticapitalista
di Giulia Martino

Marx at the Arcade. Consoles, Controllers, and Class Struggle di Jamie Woodcock (Haymarket Books, 2019) è un testo seminale per la comprensione delle dinamiche di potere insite nella produzione, circolazione e consumo di videogiochi, visti come prodotto culturale e analizzati in un’ottica marxista. Questo perché il videogioco fornisce prospettive importanti per la comprensione dei meccanismi del capitalismo contemporaneo. Tra piccoli sviluppatori indipendenti e gargantuesche imprese commerciali, tra fuga e adesione al sistema, tra resistenza e oppressione, un’analisi marxista del mondo videoludico non impedisce di apprezzare i videogiochi – semmai incoraggia uno sguardo critico e, in alcuni casi, un approccio non convenzionale, lontano dalle logiche di mercato.

È quello che è accaduto con Zona Warpa, partita lo scorso 9 giugno da Milano – città della Milan Games Week, manifestazione divenuta nel corso degli anni sempre più costosa e, quindi, meno accessibile – e proseguita con tappe a Genova, Firenze, Siena, Montelupo Fiorentino, Roma e Napoli. L’obiettivo è stato quello di dar vita a spazi sicuri e inclusivi, con un’organizzazione partita dal basso. Questo sistema paritario, orizzontale, aperto al contributo di chiunque ha spinto Matteo Lupetti e me a proporre un talk in occasione della tappa milanese di Zona Warpa, svoltasi a Cascina Torchiera. Con «Chi ha paura del fungo?» abbiamo proseguito l’indagine di un tema a noi caro: quello dei funghi, analizzati in una prospettiva anticapitalista, guardando al «wood wide web» all’insieme di connessioni formate dal micelio dei funghi e dalle radici delle piante, come simbolo delle potenzialità della collaborazione e del «fare rete». È stata questa l’impresa del Collettivo Warpo, che è riuscito a proporre talk, workshop e concerti con contributo libero all’ingresso, all’insegna dell’inclusività e dell’apertura verso varie tipologie e metodi produttivi del videogioco. Torna in mente la lezione di un altro grande libro: Rise of the Videogame Zinesters: How Freaks, Normals, Amateurs, Artists, Dreamers, Drop-outs, Queers, Housewives, and People Like You Are Taking Back an Art Form di Anna Anthropy (Seven Stories Press, 2012). Manifesto di una nuova generazione di sviluppatori indipendenti di videogiochi, non necessariamente professionisti, all’insegna dell’espressione del sé, di esperienze e prospettive lontane da quelle tradizionalmente viste nel medium. Grazie a strumenti semplici e intuitivi (tra cui Bitsy, giusto per citare un esempio) chiunque può creare un videogioco. Non necessariamente per profitto, così come scrivere una poesia può essere un gesto volto all’appagamento e alla manifestazione della propria individualità. Questa logica è stata fatta propria da Zona Warpa, che fin dalla sua prima tappa milanese ha portato al pubblico un ricco caleidoscopio videoludico, capitanato dall’ospite d’onore Dobotone, il «Videogamo Party System» creato da un gruppo di sviluppatori argentini presenti di persona in questa edizione della manifestazione.

L’importanza del «fare rete» è stata veicolata anche nel talk di Mario Alvise Di Bernardo, che ha presentato l’esperienza dell’organizzazione della Global Game Jam di Bologna per promuovere buone pratiche inclusive, capaci di spingere anche chi è meno vicino al mondo videoludico a considerare questo medium come potente mezzo espressivo. Con «Games we’ll never play», i designer Nicoletta Gomboli e Giulio Bordonaro – conosciuti come «This is not a duo» – hanno esplorato la loro stanza dei giochi per macchine intelligenti, una collezione di attività ricreative per computer, robot e intelligenze artificiali che parte da esperienze familiari a noi umani (dai puzzle a Indovina Chi?) per riscrivere le loro meccaniche e ispirare riflessioni sul nostro rapporto con le nuove tecnologie rivoluzionarie che potrebbero cambiare il nostro futuro.

Particolarmente interessante, nell’ottica di una rilettura di mondi videoludici divenuti campioni di profitto, è stato il workshop «Romhacking Pokémon», volto a fornire le basi per riprogrammare il GameBoy Color e modificare Pokémon Crystal (Game Freak, 2000), potendo così inserire nuovi personaggi, mosse e meccaniche, a dimostrazione di come il videogioco possa essere materia viva e aperta al contributo individuale, anche non autorizzato, facendo sì che l’utente possa inserirsi nelle pieghe di un codice e animarlo con la propria personalità.
Gli spazi di Cascina Torchiera hanno accolto questi e altri contributi, spesso in contemporanea, creando una «distorsione spaziotemporale» (così l’ha definita il Collettivo Warpo) che si è conclusa con uno show serale aperto dalla cumbia a 8 bit di Los Pat Moritas, proseguita con l’album/videogioco Terra Cognita dei Megasole e conclusa da Kenobit e Rico Uochi con suoni provenienti da Game Boy e Nintendo DS. Il tutto a conferma di come il videogioco possa unire, uscendo da logiche di profitto, per diventare terreno di inclusione.