Nicola Zingaretti è uscito rinfrancato dal colloquio con Mario Draghi. «Europeismo, fisco progressivo, no a condoni e flat tax», mette in fila il segretario con i suoi collaboratori. «Si delinea una piattaforma avanzata e condivisibile», sintetizza Andrea Orlando.

Il segretario dem davanti ai giornalisti nella sala della Regina di Montecitorio appare più rilassato rispetto agli ultimi giorni, e si concede persino alle domande. «Con Draghi non abbiamo parlato di rapporti con altri partiti e in particolare con la Lega, Pd e Lega sono e rimangono due forze alternative». «Nessun veto a prescindere», il punto «è verificare quale perimetro programmatico e parlamentare il governo dovrà avere, questa valutazione la deve fare Draghi». Quanto al Pd, «non possiamo che confermare la nostra fiducia verso questo tentativo».

Nessun accenno, giura Zingaretti, al ruolo dei dem nel futuro governo, tema che agita molto le acque dentro il partito, con due ministri uscenti come Lorenzo Guerini e Dario Franceschini che puntano alla riconferma e Orlando che da settimane viene indicato come ministro in pectore. «È un confronto che potremo fare quando avremo chiaro quale sarà la proposta, l’idea, l’impianto che il professore avanzerà», dice Zingaretti.

«Questa è la posizione più corretta per chi vuole che questo tentativo vada avanti». Certo, il leader dem preferirebbe un governo tecnico, senza persone del Pd che siedano accanto ai leghisti in consiglio dei ministri. Ma sa che non è lui a dare le carte.

Nella conferenza stampa a Montecitorio, Zingaretti pare più preoccupato di fissare dei paletti sul futuro del Pd. E di rispondere a chi, dentro il partito (gli ex renziani), subito dopo la caduta di Conte ha iniziato a parlare di un congresso anticipato per metterlo sotto processo. «Ci sarà tempo di discutere e trovare il modo più utile per rafforzare il nostro progetto politico. Però chi riduce questa discussione all’assillo congressuale mi sembra un po’ un marziano, fuori dalla realtà». attacca Zingaretti. «Io non ho paura del dibattito, ma farò di tutto per tenere questo partito lontano dai marziani».

Accanto a lui, mentre parla, c’è il capogruppo in Senato Andrea Marcucci, uno dei primi a parlare di congresso. E Matteo Orfini, un altro dirigente che aveva avanzato l’ipotesi, precisa: «Non ho mai detto di fare il congresso adesso, ma quando usciremo dalla pandemia». Zingaretti, in ogni caso, mette le mani avanti sull’alleanza giallorossa: «Il rapporto con M5S e Leu va coltivato rilanciato, non vogliamo solo concorrere alle elezioni, ma vincerle». L’asse con gli alleati non è solo tema del futuro: «Sarà molto importante per condizionare la vita parlamentare dei prossimi mesi», assicura Zingaretti.

Dentro Leu però tira una brutta aria, c’è il rischio concreto che, la settimana prossima in Parlamento al momento del voto di fiducia, ci sia una spaccatura tra i (pochi) parlamentari della sinistra. In queste ore si susseguono le riunioni, dentro i singoli partiti (Sinistra italiana, Articolo 1), ma anche tra i gruppi parlamentari unitari. «Ci riserviamo di fare le nostre scelte quando avremo un quadro chiaro», ha detto ieri Loredana De Petris all’uscita dallo studio di Draghi.

Nicola Fratoianni, segretario di SI, ha quasi deciso: «Se ci sono ministri della Lega io sarei per il no alla fiducia». D’accordo con lui anche Nichi Vendola. «Non c’è ancora un governo, non ci sono ministri né un programma, al momento sarebbe una decisione un po’ esoterica», spiega Fratoianni.

Anche nel fronte dei bersaniani di Articolo 1 ci sono molti dubbi, soprattutto sull’operazione che ha portato fino a Draghi, cioè la distruzione della coalizione giallorossa voluta da Renzi. Ma c’è in gioco anche il destino del coordinatore Roberto Speranza, che sta gestendo la pandemia da ministro della Sanità. Molto dipenderà dal ruolo di Salvini: se sarà ministro, SI dovrebbe votare no. Tra i bersaniani, alla fine dovrebbe prevalere comunque il Sì. Ma con molte sofferenze.