«A parte la qualità individuale delle persone, sicuramente indiscutibile, il risultato e il metodo usato alla direzione, è proprio l’idea di Pd che non va bene, non funziona non produce politica. Deve cambiare». Duro j’accuse di Nicola Zingaretti sull’ultimo valzer di poltrone all’interno del Pd deciso alla direzione di martedì scorso. Ancora più pesante perché arriva alla vigilia del voto di ballottaggio, mentre il presidente della regione è impegnato nell’ultimo rush della campagna elettorale per Marino. E perché Zingaretti, pezzo pregiato del Pd, uno che fin qui non ha perso un’elezione, normalmente professa la religione di stare alla larga dalle beghe interne del suo partito, salvo occuparsi molto da vicino della sua regione e di Roma.

Zingaretti salva a stento il leader Epifani, «forse non poteva che fare così», ma boccia senza appello il «metodo» con cui è stata scelta la nuova segreteria, cencelli purissimo, e con cui si va componendo la commissione che si occuperà del regolamento del congresso. La fotografia del partito è «un arcipelago di gruppi senza identità che hanno solo l’ossessione di mettere qualcuno in un posto». E il problema del congresso «non è cambiare correnti vecchie con correnti nuove ma rifondare la cultura politica unitaria del partito. Le risorse ci sono: tanti nuovi parlamentari eletti dalle primarie e quindi più liberi, tanti amministratori e militanti che resistono all’ossessione di far parte di un gruppo per contare, ma che scommettono sul loro valore. Se posso permettermi a loro dico: non cedete all’omologazione, resistete perché qualcosa dovrà cambiare».

Il dato è che la nuova segreteria, che durerà in carica pochi mesi, ha sancito quello i giovani turchi (ieri omaggiati da una stilettata di D’Alema sul Corriere della sera: «Finalmente ci sono i giovani turchi che fanno qualcosa di interessante. Peccato siano ad Istanbul»; replica a stretto giro di Matteo Orfini: «Divertente, ma a Istanbul lui sarebbe Erdogan») da tempo definiscono «patto di sindacato» fra componenti: bersaniani, franceschiniani e fioroniani hanno saldato una nuova alleanza. Lettiani presenti nella partita ma defilati. Renziani inclusi, ma sottostimati. Insomma, la logica correntizia nel Pd, stigmatizzata con frasi roboanti (Bersani nell’ultima direzione, Veltroni nell’ultimo libro E se noi domani ,Epifani e Renzi in tutte le ultime interviste) è oggetto di una sorta di reiezione dottrinale e assimilazione pratica: tutti la disprezzano ma tutti la praticano.
Il nuovo generale abbraccio fra «ingredienti», dopo i giorni dei lunghi coltelli post-voto, serve a preparare l’avvento del congresso. O, meglio, per prepararsi, fra difesa e trattativa, all’arrivo del tornado Renzi (che ieri ha ricevuto un endorsement definitivo, quello di De Benedetti).

L’uscita di Zingaretti – che al congresso dovrebbe sostenere Gianni Cuperlo, suo amico dai tempi della Fgci – non spariglia, ma segnala l’esistenza di un largo malumore. Soprattutto nella base: a dare ragione al presidente del Lazio, ieri, solo una pattuglia di giovani onorevoli scelti con le primarie. Ma rende visibile, anche in vista del congresso, un altro Pd: quello degli amministratoti, l’area frontista a sinistra, dal profilo civico, movimentista, lontano dalle pastette partitesche. E ostile al governo delle larghe intese.

Com’è Ignazio Marino, il candidato di Roma, che da senatore ha votato Rodotà al Colle e non ha votato la fiducia a Letta: non è un caso che stasera a Roma, al comizio di chiusura (alle 18 a piazza Farnese) saliranno sul palco Pisapia, Zedda, Serracchiani e lo stesso Zingaretti. Nessun leader di partito. Del resto già al primo turno Guglielmo Epifani era rimasto nel backstage di piazza San Giovanni. «Un esplicito messaggio per un’altra linea politica rispetto al governo», spiega il vendoliano Massimiliano Smeriglio, vice di Zingaretti in regione. «Anche perché è vero che sono stati invitati gli amministratori, ma quelli che praticano un’altra idea del campo progressista: non Merola e Fassino».

Un discorso che vale per il ballottaggio di Roma, ma anche per le assise d’autunno dei democratici: «Se il Pd va a congresso con lo schema con cui è stata composta l’ultima segreteria, sarà un congresso inutile al Pd e al paese», spiega Enzo Foschi, ex consigliere regionale e uomo-macchina di Marino. «Il Pd deve rifondarsi, far entrare aria fresca, se vuol essere motore di cambiamento del paese. Se resta così, è solo un pezzo della conservazione».