Un segretario eletto, Nicola Zingaretti, che fa «come Landini nella Cgil», e cioè che in nome dell’unità del partito offre il ruolo di vice allo sfidante perdente, Maurizio Martina. Un «padre nobile», l’ex premier Paolo Gentiloni, capo di un governo bocciato sonoramente dagli elettori, che veleggia verso la figura di presidente del Pd e fa il grande tessitore insieme a Carlo Calenda: obiettivo, tenere fuori dal nuovo gruppo dirigente Renzi e i renziani stretti. Ma anche e soprattutto smorzare, imbrigliare la (già non smagliantissima) spinta al cambiamento del nuovo leader. Il retroscena, pubblicato sulla Stampa nei giorni scorsi, smentito seccamente dallo staff di Zingaretti, è stato poi raccolto da altre testate. Un caso classico, la bugia che a forza di essere ripetuta diventa verosimile? Messa in circolo alla fine del congresso di partito (oggi la commissione si riunirà, i dati bollinati non arriveranno prima di domani, Zingaretti non avrebbe raggiunto il 50 per cento degli iscritti ma avrebbe staccato di parecchio Maurizio Martina), da chi non ha alcuna voglia di «aprire» il Pd? Il fatto è che la voce ha provocato troppi malumori per essere considerata, come giurano i collaboratori del presidente della regione, solo «frutto di una fervida fantasia» di un giornalista.

Malumori silenziati, forse anche quello dello stesso Zingaretti, per l’immagine di leader un po’ ingenuo e tenuto «sotto tutela» che certo non giova all’idea di estraneità dal gruppo dirigente Pd che fin qui il presidente del Lazio ha costruito («Ci sottovalutano, da sempre», c’è chi dice a mezza bocca). Ma così si rischia di allontanare i simpatizzanti dalle urne delle primarie dove l’idea del rinnovamento («rigenerazione» la chiama Zingaretti), se convincente, potrebbe – potrebbe – avere un qualche appeal anche fuori dal Pd.

Non se ne parlerà, almeno fino alla convenzione nazionale del 2 febbraio in cui le correnti ancora contano e gli eletti dovranno ricollocarsi sui tre candidati passati ai gazebo.

Gianni Cuperlo è l’unico a riflettere a voce alta: «Per l’amor del cielo, non pensiamo neanche per un istante che un appuntamento decisivo come questo congresso, che Zingaretti ha affrontato fin qui con lo spirito giusto, possa alla fine, alle primarie, risolversi con un accordo di vertice fra personalità del Pd». Cuperlo non ci crede, gli sembra lampante che non sarebbe «affatto questa la strada per indicare l’alternativa, necessaria e urgente, a queste destre insopportabili incivili e pericolose». Michele Emiliano, grande elettore di Zingaretti, è come al solito più tranchant. È la parola Calenda che non gli va. Dalle trivelle all’Ilva, i suoi scontri con l’ex ministro sono leggendari. Ora l’ex ministro dice che non starà nello stesso partito che ricandida Emiliano in Puglia. «Calenda non è una persona che mi fa emozionare, né mi pare che possa dare dei suggerimenti di natura politica», dice, «La sua è un’idea che preferisco non commentare. Peraltro credo che tutti, o quasi, i soggetti che egli pensava di coinvolgere sommandoli al Pd si siano più o meno sfilati. Credo che sia l’atteggiamento migliore».

Per il resto bocche cucite. Ma nell’ala sinistra della mozione Zingaretti, dentro e fuori il Pd, le perplessità sono parecchie. «C’è un piano per afflosciare le primarie», viene spiegato senza mezzi termini, «ma Nicola se n’è accorto, reagirà». Fuori dal Pd, fra quelli che hanno investito dall’esterno in ’Piazza Grande’, prevale lo sconcerto. La «rigenerazione» ha la faccia di Gentiloni e Calenda? Da ultimo è arrivato anche l’endorsement di Minniti, ex candidato renziano, accolto a braccia aperte. Una galleria di volti che fa pensare, fatalmente, a un «rinnovamento» che sia niente di più che la liberazione di Renzi.