«La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva». José Saramago descrive con precisione la condizione in cui si trova, in queste ore, Nicola Zingaretti, favorito alle primarie del Pd. Domenica 3 marzo la sua vittoria è scontata. Ma nelle stanze del Nazareno, nelle confidenze ormai rarefatte, la precarietà di questa vittoria lo è in ugual misura. Alla vigilia del voto l’unica incognita è l’affluenza ai gazebo. La soglia psicologica è un milione di elettori, come hanno confermato i candidati al confronto tv su Sky. Al di sotto, la vittoria del nuovo segretario diventerà proprio come quella descritta da Saramago: non definitiva. Forse neanche duratura.

Un (solo) milione di votanti, in realtà, sarebbe il record negativo nella sequenza storica del Pd dall’anno della sua nascita a oggi: dai 3.554.169 elettori del 2007 quando vinse Veltroni, ai 3.102.709 del 2009 quando divenne segretario Bersani, ai 2.814.881 del Renzi primo ai 1.838.938 del 2017 del Renzi secondo. Il trend è quello dell’irresistibile discesa. Ma per l’appuntamento di domenica contano anche le condizioni difficili in cui versa il partito, mai come stavolta. I sondaggi lo danno sotto il 18%. Il gruppo di comando è segnato dalla sconfitta, un esercito in rotta, «la peggiore classe dirigente, non per aver perso così tanto ma perché ha lasciato così poco da ricostruire», scrive Giuseppe Provenzano nel suo inclemente pamphlet La sinistra, la scintilla.

E poi c’è l’ex segretario Renzi. Veste i panni del “disturbatore”, la definizione è dello storico Piero Ignazi, (“seriale” aggiungeremmo noi). È un leader ancora in grado di mobilitare gli elettori – riempie i teatri, il suo libro è in cima alle classifiche di vendita. Tiene in stand by una scissione: la nega eppure la agita come una spada di Damocle sul futuro del partito.

Se l’affluenza dunque scenderà sotto il milione di votanti, l’eletto sarà considerato, dentro Pd e fuori, un leader debole e privo dell’investitura popolare. Sarebbe un destino paradossale per Zingaretti che ha fatto dei suoi successi elettorali la narrazione della sua carriera politica. «Il suo è un modello che ha vinto sempre, sin dal 2008 quando a Roma Rutelli più Rifondazione perdevano, e lui invece vinceva alla provincia; poi nel 2013 quando Bersani più Vendola portava a casa la famosa ‘non vittoria’ e lui veniva eletto nel Lazio. E infine il 4 marzo 2018, quando il Pd crolla, nel Lazio abbiamo preso 350mila voti in più rispetto al voto nazionale, dove è andata in scena la sconfitta storica», racconta Massimiliano Smeriglio, suo “braccio sinistro” in tutte queste imprese. Zingaretti si appresta dunque a raccogliere la vittoria che da tempo preparava sulla base della promessa di un nuovo corso del Pd, della sua “rigenerazione”. Della derenzizzazione.

Ma il rischio stavolta è che la vittoria sia dimezzata. O peggio intrappolata.

In primo luogo le promesse di rinnovamento dovranno fare subito i conti con «l’accordone». «Sarà necessario costruire le condizioni dell’unità», spiega il futuro leader. Raccogliere intorno a sé gli ex avversari interni sarà indispensabile per sottrarre più dirigenti possibili alla tentazione di seguire Renzi nella scissione. Non è un caso che un uomo chiave come Luca Lotti ha chiarito che non uscirà dal Pd in ogni caso: «È casa mia», in caso di strappo dell’ex segretario «resterei in un partito che rappresenta ancora l’unico argine al populismo e al sovranismo». Maurizio Martina potrebbe entrare in segreteria direttamente o attraverso i suoi uomini-registi, lo stesso Lotti o Lorenzo Guerini, entrambi renziani. Mai come adesso sono corteggiati anche i giovani turchi. Lo strappo di Renzi resta all’ordine del giorno, subito prima o subito dopo il voto europeo. Lui lo nega ma il candidato Roberto Giachetti, da radicale poco incline ai minuetti della politica, negli ultimi giorni ha infittito gli avvisi: «Se si riapre il Pd a coloro che l’hanno distrutto o a un accordo con i 5S, toglierei il disturbo».

Zingaretti quindi dovrà fare attenzione a non fornire alibi a chi lo accusa di voler rifare il Pds. E questo rischia di affievolire la spinta alla “rigenerazione”. Il dossier della riapertura dei rapporti a sinistra dovrà essere maneggiato con cura per evitare inneschi al meccanismo delle rotture a catena. Ma non sarà facile già all’indomani dell’elezione, quando si aprirà il dossier europee.

E qui arriviamo al caso Carlo Calenda. L’ex ministro ha raccolto quasi 200mila firme su un testo che pomposamente definisce “manifesto”, «Siamo europei», inno a un incontestabile quanto generico europeismo. Da settimane l’uomo moltiplica, sotto i riflettori dei media, il suo attivismo in vista delle europee. Rottamata, ma solo a parole, la proposta di un “fronte repubblicano” contro i sovranisti ora propone un listone che «vada oltre il Pd» e si espanda alla sua destra: l’opposto della linea del «nuovo centrosinistra» alla base della corsa di Zingaretti.

Se i nomi del listone non saranno graditi, Calenda minaccia di ritirarsi. Così per evitare una rottura durante le primarie, il presidente del Pd Orfini ha firmato a nome di tutto il partito il “manifesto”. Ma è difficile che la rottura non arrivi al momento delle liste. In questo caso però il danno d’immagine ricadrà tutto sulle spalle del nuovo segretario.

Per Calenda bisogna sbarrare la strada al riavvicinamento degli ex Pd della Ditta Bersani&D’Alema. Ma non solo. L’ultima richiesta è di escludere il presidente della Puglia Emiliano, suo avversario dai tempi dell’Ilva. «Se Zingaretti farà rientrare Emiliano, farà uscire me. Punto. Sufficientemente chiaro?», spiega. Ma Emiliano è uomo di peso del Pd regionale e grande elettore di Zingaretti. Di certo Zingaretti non farà «rientrare Emiliano» nel Pd: perché non ne è mai uscito. Insomma sarà difficile non urtare le suscettibilità dell’ex ministro. Che potrebbe rompere contro le aperture a sinistra del nuovo Pd e fare da primo tempo della vera rottura, quella di Renzi.

Che avrebbe come effetto algebrico quello di abbassare il risultato delle europee, incassando la prima sconfitta della nuova segreteria. Poi dovrebbe affrontare le elezioni in Emilia Romagna e Calabria, due regioni governate dal centrosinistra ma anche quello oggi a rischio sconfitta.

Per evitare la serie di reazioni a catena, la ’rigenerazione’ promessa rischia di arenarsi prima di partire. E il segretario accusato di voler restaurare il Pds di trasformarsi, anche grazie al lavorìo dei due ex ministri renziani Gentiloni (che sarà presidente del Pd) e Franceschini, nel garante della continuità del Pd derenzizzato. Secondo la vecchia intramontabile logica: cambiare tutto, ovvero il segretario, per non cambiare niente.