Se la Storia si potesse incontrare, ascoltare o almeno sfiorare, oggi la Storia avrebbe il volto di Zehra Dogan. È seduta su un tavolo del Bazar, la taverna «curdo-meticcia» del suo amico Xepir, e dietro di lei la Casilina non è mai sembrata così silenziosa.

Zehra è un’artista e giornalista curda, detenuta per tre anni nelle carceri turche e rilasciata il 24 febbraio scorso. Nel 2017 aveva dipinto un quadro di Nusaybin, la città curda che si trova lungo il confine con la Siria, dopo il bombardamento dell’esercito turco. Il quadro, che prende ispirazione da una fotografia scattata dalle forze armate turche, ritrae sullo sfondo le macerie della città, con le bandiere turche appese sui brandelli dei palazzi rimasti e in primo piano i carri armati turchi. Durante quello stesso attacco, nel 2016, trenta città furono bombardate dalle milizie turche, e tra le 355.000 e le 500.000 persone furono deportate, la maggior parte delle quali di origine curda. Dopo aver pubblicato l’opera, l’arresto di Zehra è stato quasi immediato. «Propaganda terroristica», questo il capo d’accusa.

«Quando lavoravo sulla notizia non potevo non disegnarla. Disegnare significava esprimere parte di me, e parte di me era ed è la battaglia curda. Nei miei dipinti la luce, le figure, gli stessi colori simboleggiano quello che ha vissuto la popolazione curda».

La Turchia non ha mai ratificato il Trattato di Roma sul Tribunale Penale Internazionale, ecco perché è nata a Parigi il TPP, tribunale permanente dei popoli, sulla Turchia ed i Curdi: per presentare comunque all’opinione pubblica internazionale una serie precisa di fatti e testimonianze di massacri e violazioni gravi dei diritti dei Curdi da parte della Turchia. «Immagina che tu sei a casa tua, parli la tua lingua, chiami i tuoi figli con il loro nome, e da un giorno all’altro arrivano e invadono quello che tu hai sempre conosciuto. E iniziano a dirti: tu oggi in poi non chiami tuo figlio come lo hai sempre chiamato, lo devi chiamare in un altro modo. Non puoi chiamare la cucina ’cucina’, quella stanza ’stanza’, tutto deve cambiare perché qualcuno ha detto che deve cambiare. E se non lo fai, la prigione è dietro l’angolo».

Xepir guarda Zehra con l’amore di un fratello grande. Si ricorda di quando andavano all’università. Lei è quattro anni più piccola di lui, ma sono cresciuti insieme. «Zehra ha sempre disegnato, e a soli 21 anni ha iniziato a scendere in strada per raccontare quello che vedeva».

JINHA NEWS
Poco più che ventenne Zehra decise di fondare un’agenzia di stampa di sole donne: Jinha news nacque l’8 marzo del 2012. «Fare giornalismo in Turchia significa confrontarsi ogni giorno con una narrazione predominante che non lascia spazio all’opposizione. E anche quando la stampa alternativa riesce ad emergere, il linguaggio che essa utilizza è un linguaggio interamente maschile. Quando le donne subiscono violenza, la notizia non è la violenza maschile, ma la descrizione minuziosa di quello che la donna ha fisicamente subito. Non c’è dignità in tutto questo. E Jinha era nata per rivoluzionare quel linguaggio, battendosi per i diritti delle donne curde». Jinha è stata chiusa dalle autorità turche nell’ottobre del 2016.

Tra il Kurdistan e la Turchia ci sono 384 prigioni, e nel 2018 altre 53 erano in costruzione. Secondo i dati più recenti dell’Associazione del Sistema Penale (CISST) dal 2002 al 2018 vi è stato un aumento del 315% del numero dei detenuti, che oggi sfiorano i 300.000. Nel World Freedom Index 2019, pubblicato ogni anno da Reporter Sans Frontier, la Turchia è al 157 ° posto su 180, e ha il record mondiale di giornalisti in carcere.
Zehra, dopo l’arresto, ha continuato a fare «l’unica cosa che sapevo fare», ovvero scrivere e dipingere. Durante la sua prima detenzione in attesa della sentenza definitiva, dentro il carcere di Mardin, aveva la possibilità di dipingere. Poi, una volta condannata, è stata trasferita nella prigione di Diyarbakir . «Lì non mi era consentito fare arte. Mi hanno requisito la carta, la penna e le matite. Ma c’era qualcosa che non potevano requisire, e con quel qualcosa ho provato a dipingere.»

IN CELLA
Le immagini dei suoi quadri realizzati con il sangue mestruale, suo e delle sue compagne di cella, hanno fatto il giro del mondo. «Per quanto provassero a domarci, c’era una rabbia creativa che non potevano sedare.». «Vivevamo in 40 all’interno della stessa cella, nonostante la legge imponga una capienza di 20 detenuti massimo. I bambini scontano la pena stretti accanto alle madri, cercando il modo di sopravvivere, stando in piedi e dormendo per terra». Ad oggi all’interno della prigione di Diyarbakir decine di persone sono in sciopero della fame, i controlli medici sono pressoché inesistenti e l’acqua potabile è centellinata.

«Quando sei dentro, quando condividi la stessa parete e lo stesso basso e stretto soffitto, non puoi non dare qualcosa all’altro. Sapendo solo dipingere non poteva fare altro che dare il mio colore. La cosa più sorprendente fu scoprire che molte di loro erano decisamente più brave di me a dipingere, solo che non lo avevano mai scoperto prima di allora».

Alla Tate Gallery di Londra, Zehra ha portato in mostra diciotto oggetti rappresentativi della lotta curda. Uno di questi era una video installazione muta, che aveva al centro una tenda blu. La tela era appesa fra due palazzi fatiscenti. Accanto all’istallazione c’erano delle cuffie che il visitatore poteva indossare guardando la tela. Vi erano registrati sei minuti di bombardamenti, sei minuti che appartenevano ad un video di venti ore che Zerha aveva girato durante la sua permanenza a Nusaybin. A seconda del vento la tenda ondeggiava lasciando intravedere quello che c’era al di là di essa. Quando il vento si alzava e tu mettevi le cuffie, notavi che al di là della tela c’erano le barricate, la violenza e le macerie. Ma quando il vento si fermava e la tela si abbassava, la serenità del blu era l’unica cosa che rimaneva. « Era come una danza tra i proiettili e la libertà, e coloro che volevano la libertà hanno appesa quella tela. Era la danza di chi avrebbe resistito alla scomparsa». Il palmo della mano di Zehra è macchiato di pittura. Mentre saluta muove le dita velocemente, e il colore si è ormai asciugato tratteggiando le linee della sua mano. «Da grande immagino che sarò uguale ad adesso, con il pennello in mano e una notizia da raccontare. Solo… più vecchia».