Due concerti in cui la musica europea è letta da due angolazioni diverse, quelli tenutesi all’Aula Magna dell’Università di Roma, La Sapienza, per l’Istituzione Universitaria dei Concerti. Il primo, Absolute Brahms, in cui Giorgia Tomassi al pianoforte, Gabrile Pieranunzi e Fabrizio Falasca ai violini, Francesco Fiore alla viola, e Danilo Squitieri al violoncello, hanno interpretato il Quartetto op 25 e il Quintetto op. 34 di Brahms. Il secondo, Premio van Cliburn 2020, in cui il diciottenne pianista coreano Yunchan Lim, vincitore del premio che dava il titolo al recital, ha interpretato musiche di Dowland, Bach e Beethoven, percorrendo in una sola serata quasi tre secoli di musica, attraverso la lente sonora del pianoforte.

BRAHMS può considerarsi una sorta di sintesi della musica classica e romantica europea attraverso la lente della cultura tedesca. Come Bach, anche Brahms è attratto anche dalla musica francese, è sua la prima edizione moderna dei pezzi per clavicembalo di Couperin, ma è profondamente radicato nella tradizione contrappuntistica del nord. Yunchan Lim, invece, è un’intelligenza, e una sensibilità, della cultura orientale che affronta i capolavori della cultura occidentale. Avessimo noi occidentali la stessa curiosità e penetrazione della cultura d’Oriente, e uscissimo dalle cartoline patinate dell’esotismo, per approfondirne invece la sostanza. Fa bene sperare un’iniziativa delle edizioni Les Belles Lettres, che alla storica e prestigiosa pubblicazione di edizioni critiche dei classici greci e latini affianca ora una egualmente accurata edizione critica dei classici cinesi e indiani. Il Brahms dei musicisti italiani è bene individuato nel complesso intreccio di tradizione e innovazione, musica alta e canzone popolare, quella voglia di canto così tipica di Brahms, ma anche così controllata, e frenata, perché non dilaghi, il che, quando esplode, la rende così densa. Sono bravissimi i cinque musicisti a restituircela. Lo scavo interpretativo è bene illustrato dal bis concesso alla fine della serata, la marcia del Quartetto op. 44 di Schumann: l’alveo, il nucleo da cui parte Brahms, e da cui fiorirà il canto di Mahler.
Lim, da parte sua, in questo suo debutto romano, ha voluto mostrarci cosa rappresenti per lui lo strumento che suona: il pianoforte. Possiede un tocco di una duttilità straordinaria. E sa restituire con grande chiarezza il gioco contrappuntistico delle voci. In Beethoven, poi, è bene espresso il contrasto tra momenti di estrema dolcezza e altri di esasperata violenza. Indicativo che nessuno dei brani eseguiti sia costruito sul progetto di una grande forma, sonata, concerto (per esempio il Concerto Italiano di Bach) ma siano tutti composti di singoli pezzi accostati gli uni agli altri, variazioni, invenzioni (che Bach chiama sinfonie), bagatelle. E ancora più significativo che i tre bis generosamente concessi a un pubblico plaudente, tutti e tre di Bach, siano trascrizioni da opere non immaginate per la tastiera.

CIÒ SIGNIFICA che il pianoforte assume per Lim il ruolo di interprete di un mondo musicale quasi esclusivamente pianistico. Come se il suono si definisse calligraficamente in singoli momenti irripetibili, così come nella scrittura delle lingue orientali il segno, non sempre alfabetico, ora di singole parole, ora di sillabe, è rappresentato sempre da un disegno simbolico il cui valore pittorico è immenso. Ecco, allora, che dalla Pavana di Dowland trascritta per tastiera da Byrd, alle Sinfonie bachiane, alle Bagatelle op. 33 beethoveniane e alle Variazioni op. 35 su un tema delle Creature di Prometeo, adoperato anche per il finale dell’Eroica, il pianoforte si fa specchio quasi edonistico di una civiltà musicale, la nostra, ma udita, e riproposta con l’orecchio di un altra cultura. Ma perché no? Il senso dell’artesta proprio in questo: che ogni lettura scopre lati, significati, prima inespressi.