Nell’ampia geografia delle letterature latinoamericane alcune – quella ecuadoriana, o quelle boliviane o paraguayana, ma anche le regioni interne dell’Argentina, le frontiere del Messico, o l’enorme Amazzonia – contano ottimi autori rimasti al margine della diffusione continentale, finché la rete non ha ne ha permesso la scoperta: fra loro, Yuliana Ortiz Ruano, ecuadoriana  che proviene da una regione di frontiera e discende dalla comunità afro, oggetto di emarginazione sociale fin dai tempi della colonia. Tre suoi libri di poesia – Sovoz (2016, Premio Fundación Pablo Neruda), Canciones desde el fin del mundo (2018) e Cuaderno del imposible retorno a Pangea (2021) – hanno trovato una buona accoglienza in Cile, Ecuador e Argentina, mentre il suo primo romanzo, Fiebre de Carnaval, pubblicato da una casa editrice indipendente ecu.adoriana, La Navaja Suiza, è stato premiato come miglior titolo narrativo di esordienti under 35 ed è uscito da poco nell’ottima traduzione di Marta Rota Nuñez  Febbre di carnevale (Sur, pp.194 € 17,00). Il nostro incontro è avvenuto di recente a Roma.

Che relazione c’è fra la zona di frontiera da cui lei proviene, dove si sono incrociati schiavi neri in fuga, comunità originarie mai sottomesse dai colonizzatori, bianchi fuorilegge, e le scelte che lei ha introdotto nella sua scrittura?
In questi mesi sto lavorando sugli archivi storici per capire quando è apparsa per la prima volta nella cartografia l’isola di Limones, vicina alla Colombia, dalla quale provengo: fa parte della provincia di Esmeraldas, una zona costiera poco conosciuta, anche in Ecuador, dove vive gente di tante origini diverse. Nel 1556 c’era già una mappa che mostrava l’isola di La Gorgona, la penisola di Tumaco e anche Limones, come luogo di transito verso Guayaquil, il porto più importante del Mare del Sud. Tre anni prima era naufragata sulla costa una nave con un gruppo di schiavi da vendere in Perù, che si salvarono e costruirono uno spazio di resistenza insieme ai gruppi indigeni del luogo. Da poco è riemerso il diario di uno spagnolo, Pedro Gobeo, anche lui naufragato a Esmeraldas, dove racconta di avere incontrato Alonso de Illescas, un ex-schiavo che parlava la lingua degli indios, lo spagnolo, il portoghese, ma anche la sua lingua africana, e che era a capo di quella nuova comunità. La loro resistenza è durata quasi trecento anni, fino alla prima Repubblica, quando sono iniziate nuove forme di schiavitù, ma anche nuove strategie di contrasto, e tutto questo si è riflesso in una cultura molto legata ai Caraibi, alla Colombia, e alla musica.

Questo intreccio mi è apparso chiaro a partire dalla lettura di Kamau Brathwaite, scrittore delle Barbados, che ha teorizzato una lingua-nazione con radici nelle lingue africane proibite, la cui eredità riemerge nella poesia popolare, nel calypso o nel reggae. Nell’inglese britannico, dice Brathwaithe, non si capisce – per esempio – l’essenza di un fenomeno come l’uragano, perché «l’uragano non ruggisce in pentametri». Nonostante gli sforzi di tutta una generazione di educatori afrodiscendenti che ci ha permesso di riscoprire parti della nostra storia, nelle regioni del Pacifico questo insegnamento non ha avuto significative conseguenze. Dunque, mi sono messa a lavorare per l’Universidad de las Artes di Guayaquil, il cui progetto interculturale intende pensare le arti da una prospettiva estranea alle logiche coloniali: lavoriamo molto sul territorio, ma anche sui teorici caraibici come Edouard Glissant, e Antonio Benítez Rojo, e da qui sono partita per scrivere Febbre di Carnevale.

Il romanzo è attraversato da un costante sottofondo musicale, tanto che l’editore italiano ha inserito un qrcode per ascoltarne le canzoni mentre si legge: come ha scelto questa «colonna sonora» e qual è il suo rapporto con la scrittura narrativa?
Ho ambientato la storia nel 1999, quando con il passaggio al dollaro molti persero tutto, perché il costo della vita si quadruplicò, e iniziò una migrazione di massa verso il nord. La geografia di Esmeraldas ha una componente altamente sonora: il vento, il mare suonano, ma c’è anche molta musica, come in tanti luoghi della diaspora africana, e essa è una parte della nostra lingua-nazione, accompagna un progetto incompiuto di libertà, è un rumore di fondo che permette di continuare a lottare, perché le comunità afrodiscendenti sono tuttora controllate, isolate, senza accesso alla libera circolazione nello spazio pubblico. Tutti noi siamo ormai molto diffidenti rispetto a ciò che si porta dietro il concetto di «negritudine», e mi sembrava importante riconfigurare l’ambientazione del romanzo anche attraverso la musica, che è stata una componente fondamentale dell’energia vitale degli afrodiscendenti.

La sua scrittura porta con sé evidenti tracce di oralità, e sebbene si pensi che la musica venga tradotta meglio in poesia, il suo caso dimostra piuttosto il contrario…
Il passaggio al romanzo mi ha permesso di desacralizzare la mia idea della prosa, e di sperimentare come ogni scrittore inventi la forma del romanzo nel momento in cui lo scrive, e anche a me questa forma ha permesso di giocare con la scrittura meglio di quanto non me lo consentisse la poesia, che forse ora cerco altrove.

I miei versi, peraltro, non hanno nulla della oralità, e la poesia era per me qualcosa di imparentato con il sacro, qualcosa che mi possedeva. A volte non mi riconosco in quello che ho scritto, m ne esento distante. Erano anni in cui leggevo molta poesia neobarocca, Lezama Lima, Marosa di Giorgio, un’antologia che si intitola Medusario ed è una specie di bibbia neobarocca. Era chiaro che rispetto a quelle letture,  i miei versi suonassero a me stessa come provenienti da altri luoghi.

Ha scelto di affidare la voce narrante a una bambina, Ainhoa, che parla in prima persona: come è arrivata a questa soluzione?
Nell’etimologia di infans è contenuta l’idea di un soggetto che non parla ancora e non ha dunque potere di nominazione, o di affermazione, nemmeno sul proprio corpo. Così come gli adulti guidano e controllano un bambino, esiste una coazione sociale a indirizzare, quando non a sfruttare, il   corpo delle donne, e se il soggetto di questo corpo cerca di uscire da questa rete di “protezione”, la sua energia vitale viene repressa. La psicoanalisi ha chiarito come il bambino nasca a se stesso grazie allo sguardo dell’altro: a me interessava trovare un modo per dare corpo alla sua voce all’interno delle forme di tirannia, giustificate con l’amore e la protezione, che si danno in quella istituzione intoccabile che è la famiglia. Mi capitò di leggere nel 2016 un saggio di Juan Duchesne-Winter sulle consuetudini relative alla repressione dell’infanzia in alcuni autori caraibici, così iniziai a osservare i bambini della mia regione, e più in generale della costa del Pacifico, dove esiste una sorta di maternità condivisa, che funziona non solo in casa, ma anche nello spazio pubblico, per strada, sulla spiaggia. Decisi allora di partire da qui: anch’io ho vissuto in una casa piena di donne, in una famiglia allargata, e da lì mi è arrivata la voce di Ainhoa, sulla quale ho iniziato a lavorare, cercando di ritrovare parole che avevo dimenticato nei miei numerosi spostamenti all’estero: mi è piaciuto inventare un mondo attraverso giochi immaginari.

Lo spazio in cui si muove la protagonista è anche un ambiente naturale molto peculiare, che negli ultimi anni è stato al centro di proteste e di lotte per la sua difesa. In che modo tutto questo si riflette nel romanzo?
L’Ecuador è stato uno dei primi paesi a dare personalità giuridica all’ambiente e questo ha permesso alle comunità locali di proporre un rapporto con la natura come spazio vitale in cui abitiamo e che ci sostiene: in questo contesto, le lotte ambientaliste non hanno funzione di tutela, bensì di restituzione della terra alle comunità ancestrali perché possano decidere cosa farne. L’estrazione del petrolio ha prosciugato i fiumi, ha inquinato, ha provocato problemi sia manifesti sia invisibili. A Esmeraldas c’è una raffineria in mezzo a una città; dove nel 1999 scoppiò un incendio, che appare nel romanzo come una pioggia di petrolio restituita dallo sguardo della bambina.