Il Ca’Foscari short film festival ha dedicato nella sua 12° edizione un programma speciale alla regista giapponese Yukiko Mishima, uno degli sguardi femminili più interessanti nel panorama giapponese del nuovo millennio che si è aggiudicata il Gran Premio Speciale della Giuria al 41° Montreal World Film Festival e il 42° Hochi Film Award come miglior regista per il film Dear Etranger. Durante la Masterclass, curata della direttrice del festival Roberta Novielli, la regista ha ripercorso la sua carriera soffermandosi sui tratti principali del suo lavoro e presentando Ode to Joy, cortometraggio tratto dal film collettivo DIVOC-12 creato durante il periodo della pandemia. Attraverso l’incontro tra un’anziana signora e un ragazzo, il cortometraggio si concentra sull’ansia dell’avvenire e sulla precarietà economica che colpisce la società; un incontro dove due estranei condividono le loro paure e i propri desideri. Con eleganza Mishima indaga i sentimenti dei suoi protagonisti, una mappatura da cui emergono i nuovi equilibri all’interno delle famiglie e il ruolo che le donne ricoprono nella società giapponese contemporanea come nel suo ultimo lungometraggio Shape of Red, adattamento del romanzo Red di Shimamoto Rio, presentato in anteprima in Italia. Il Festival, infatti, è stato il punto di partenza di un tour che ha portato le opere della regista presso l’Istituto di Cultura Giapponese a Roma e presso l’Università Orientale a Napoli.

Come ha lavorato alla sceneggiatura di «Shape of Red» e quanto il film è aderente al libro?
Il libro si svolge in modo lineare, mentre per il film ho deciso che sarebbe stato drammaticamente più forte dividere la narrazione inserendo l’elemento del passato. Quando ho letto per la prima volta il romanzo, l’immagine che mi ha colpito di più è quella della macchina che guida nella neve. Nel libro questa è una scena come un altra, mentre nel film è il punto da cui parte la mia storia, è il momento più importante della vita della protagonista. In questa notte ho inserito le scene del passato da cui man mano viene fuori il significato di quel viaggio. Alla fine del romanzo la protagonista torna nella famiglia, invece nel film non avviene. Da questa scelta è nata una nuova storia, non volevo fare una semplice trasposizione, ma dare una nuova lettura al personaggio e alla società e soprattutto che la protagonista affermasse la propria personalità. Nella vita si fallisce e questi fallimenti non devono fermarci, quindi desideravo dare la possibilità alla protagonista di poter fallire, ma anche di andare per la sua strada.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi ha colpito nel film la richiesta verso le donne di abbandonare la propria carriera per la maternità. Come sta cambiando il ruolo delle donne nella società?
La società da un punto di vista dell’uomo continua a vedere la donna come una persona che una volta sposata dovrebbe essere madre e moglie; se invece nella coppia è la donna a essere in una posizione di forza non lo penserebbe. Le registe donne della mia età, cioè sulla cinquantina, dicono che non si possa avere una famiglia o crescere dei figli mentre si dirigono dei film, ma questa cosa sta lentamente cambiando. Le donne nella società giapponese di adesso sentono che possono fare entrambe le cose e che non bisogna lasciare il lavoro per diventare madri. Una cosa che è accaduta però durante la pandemia è che si è riaffermato il ruolo della donna nella casa: fare le faccende, prendersi cura dei bambini, cucinare; avevo tante amiche che da mattina a sera non facevano altro che cucinare.

In «Shape of Red» la figura materna è molto presente, mentre in «Dear Etranger» le madri restano ai margini dei rapporti.
In Red la protagonista cresce senza un padre, quindi il legame vero la figura materna è molto forte; oggi le madri single sono molte di più e volevo evidenziare questo aspetto. Se da un lato l’affetto per le madri è aumentato, dall’altro la figura paterna è sempre meno presente. Prima della guerra la figura del padre era molto importante, virile e forte all’interno delle famiglie. Questo rapporto e rispetto verso il padre era la filosofia fondante con cui crescevano i bambini, mentre dopo il ’45 le cose sono cambiate. Quindi mi è venuto spontaneo pensare a questi rapporti con i padri. In D.E la figura del padre, almeno all’inizio, non ha quest’aurea di potenza, solo alla fine acquisisce un ruolo importante e lo trasmette ai figli.

I suoi personaggi maschili sono positivi e importanti per il sostegno delle figure femminili, cercano di mettere ordine come in «Dear Etranger», dove il padre cerca di risolvere i rapporti famigliari.
Nel film questo rapporto positivo si collega al titolo. Mi sono concentrata sul fatto che non sempre ci si può capire a prescindere dal genere. È importante non rinunciare alla volontà e alla necessità di volersi conoscere, per questo ho intitolato il film «Caro sconosciuto». Mi piacerebbe che nel mondo si diffondesse di più questo modo di pensare per il quale si cerca di venirci incontro. Siamo tutti stranieri e questa parola è una forma di affetto, di comprensione che dobbiamo cercare di avere per l’altro anche se gli esseri umani hanno tante differenze e non tutti vanno d’accordo.

Questi personaggi sono ricchi di sfumature, come lavora sulla costruzione dei personaggi?
Quando ritraggo un personaggio lo faccio con l’idea di capire come sia fatta una persona. Questa forse è una grande influenza che ho ricevuto dal documentario; ad esempio in un documentario ho ritratto una donna ottantenne seduta nella sua casa durante l’inverno. Un giorno ha indossato un paio di occhiali di una misura che non era la sua e con cui non riusciva a vedere, ma continuava a indossarli. Ho capito che erano gli occhiali del marito scomparso. Per me questi singoli momenti hanno una grande importanza per far capire un personaggio.

Come lavora sulla fotografia? Nelle scene notturne c’è una ricerca e un’analisi delle emozioni dei personaggi?
Si, nelle scene notturne i personaggi entrano in uno stato d’animo in cui prendono consapevolezza di qualcosa. Per me la notte riguarda ciò che è personale, mentre il giorno appartiene ai rapporti con gli altri. Secondo me di giorno la maggior parte delle persone indossa una maschera, invece, la sera possiamo aprirci e guardarci senza pensare agli altri. C’è una scena in Ode to Joy dove una sera la protagonista si trova in casa ed è preoccupata. Non mi serviva una luce solo per illuminare la stanza, ma anche per esprimere i sentimenti della donna. Era preoccupata ma contemporaneamente esprimeva il desiderio di voler continuare a vivere, per questo ho inserito delle arance dal colore forte che simboleggiano la voglia di vivere.

In alcuni momenti la macchina da presa è posizionata fuori dallo spazio di azione come se fosse un osservatore esterno e in alcuni momenti passa alla camera a mano, come mai queste scelte?
Ho iniziato come documentarista e per i documentari lo stile di base è quella della camera a mano; questo elemento è sicuramente rimasto. In Dear Etranger ho tracciato una linea tra le scene girate con cavalletto e quelle con la camera a mano, due modi che ho messo in relazione con i sentimenti del protagonista. Quando Makoto esprime il desiderio di prendersi cura della famiglia e dal suo punto di vista regna la pace, uso la camera fissa. Quando lui capisce che non c’è equilibrio e inizia ad agitarsi, è il momento in cui inizio a utilizzare la camera a mano. In Shape of Red a prima scena è girata con la camera a mano, mi adeguo ai sentimenti della protagonista quindi quando lei inizia a esprimere la sua agitazione allora inizia il movimento della camera.

Sta lavorando a un nuovo progetto?
Si, diversi. Nell’ultimo periodo in Giappone stanno aumentato i suicidi delle donne, quindi vorrei mettere in scena un personaggio che riflette sul senso e il valore della vita e che riesce a guardare al futuro grazie al canto. Il secondo lavoro è invece incentrato su alcune donne che non sono a loro agio nel fare delle cose che in realtà non vogliono fare: per esempio passare il tempo in cucina come nel periodo della pandemia. Vorrei riflettere se questo è un problema della società o personale. Il terzo progetto è sull’attrice Tanaka Kinuyo, passata alla storia come la prima regista giapponese, ma in realtà la prima regista nella storia del Giappone è stata una donna che lavorava con Mizoguchi. Questo progetto è incentrato sul rapporto tra Mizoguchi e queste due donne, tra un uomo incapace e due donne brave, ma frivole. Non voglio sminuire nessuno, mi piacciono molto i film di Mizoguchi ma forse da un punto di vista umano non era un granché.