Un’intera parete di Palazzo Grassi è dedicata a The Last Dance, Denver che Youssef Nabil (il Cairo 1972, vive tra Parigi e New York) ha realizzato nel 2012. Scatti in cui l’obiettivo indugia sul vortice del tessuto nel ritmo della danza che avvolge il corpo femminile. Il resto si lascia intuire. Una descrizione del movimento che è in un certo senso scultorea. Forse è per questo che viene in mente Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni. La linea sottile di presenza/assenza, tappa di un viaggio onirico e metaforico che si spinge oltre i confini della nostalgia è il fil rouge della retrospettiva Once Upon a Dream (a cura di Matthieu Humery e Jean-Jacques Aillagon), negli spazi di Palazzo Grassi a Venezia (fino al 10 gennaio 2021), una decina d’anni dopo la prima mostra in Italia dell’artista egiziano: I won’t let you died allestita nel 2009 nell’Atelier del Bosco di Villa Medici a Roma.

Negli ultimi lavori, realizzati nel 2019, il soggetto – prevalentemente paesaggio/natura – si sostituisce alla figura umana…
Sono paesaggi astratti che rappresentano, visualmente, il modo in cui mi sento connesso a ciascuno di loro. Sono molto legati ai temi che tratto negli autoritratti perché riguardano il mio modo d’interrogarmi sulla vita e sull’esistenza.

Youssef Nabil. Foto di Manuela De Leonardis

Riflessioni che si estendono anche ai titoli, come in «Your Heart knows the Way» o «Your Life was just a Dream». Allude forse a un’idea di perdita?
Il titolo è parte dell’opera. Mescolo realtà e sogno, vita e morte, l’essere sveglio e dormiente. Fin da bambino non ho mai pensato che la vita fosse qualcosa che avesse una direzione ben precisa. L’idea è che siamo qui, sulla terra, per un periodo di tempo breve.

In mostra c’è anche un bellissimo ritratto che le ha fatto Van Leo (Leon Boyadjian, 1921- 2001) nel 1995. In che modo questo fotografo armeno-egiziano è stato di ispirazione?
L’incontro con Van Leo lo considero un dono. Avevo appena cominciato a fotografare e cercavo qualcuno che potesse stampare le mie foto. Camminavo per il centro del Cairo – era il 1992 – quando vidi la vetrina con la scritta «Van Leo. Fotografie in bianco e nero». Salii le scale – lo studio era al primo piano – e bussai alla porta. Mi venne ad aprire lui in persona. Mi presentai e gli dissi cosa cercavo. Lui stampava solo le sue fotografie, però chiese di vedere le mie foto. Gli mostrai quelle prime stampe in bianco e nero che facevo all’epoca, ispirate al cinema. Gli piacquero: mi disse che le avrebbe stampate. In seguito diventammo amici. Ci vedevamo quasi ogni settimana. Sapevo che amava la cioccolata con i datteri e gliela portavo, lui preparava il tè e ci sedevamo vicino alla finestra e, guardando fuori, parlavamo dell’Egitto del passato e del presente. Mostravo a Van Leo le fotografie che stavo facendo. All’epoca lui era sulla settantina, cominciò ad ammalarsi. Van Leo mi ha fotografato cinque volte e un ritratto è esposto a Palazzo Grassi. È stampato in bianco e nero e colorato a mano.

Quando nel 2003 decise di lasciare il paese era consapevole che non sarebbe più tornato?
Ho dato ascolto al mio cuore. Vivendo in Egitto conoscevo solo quel modo di vivere, avevo la mia famiglia e gli amici, parlavo la mia lingua e mangiavo il cibo che mi piaceva, ero ispirato dal cinema ma successe qualcosa. Realizzai che sul lato personale non potevo più vivere lì. Anche dal punto di vista professionale volevo che il mio lavoro fosse visto in Occidente, inoltre – tecnicamente – volevo essere in grado di stampare in grande formato. In Egitto, infatti, potevo solo stampare in formati ridotti. Anche trovare la carta fotografica per stampare in bianco e nero in camera oscura era diventato sempre più difficile. I tempi erano cambiati, Van Leo era morto. Insomma, ho sentito che era arrivato il momento di andare.

Parlando di censura, il video «Arabian Happy Ending» (2016) è dedicato ai baci negati nel cinema egiziano di oggi…
Nel mio lavoro cerco sempre di affrontare i cambiamenti sociali attraverso la memoria del mio paese e la mia stessa memoria. Il video Arabian Happy Ending parla del cinema che amo e che, come dicevo, per me è stato di grande ispirazione. Un tempo nei film egiziani i protagonisti si baciavano. Il bacio rappresentava la scena d’amore, non come nei film europei o americani dove c’è un’altra libertà. Oggi, però, se un’attrice in un film accetta di essere baciata da un uomo che non è suo marito, per la gente è una poco di buono. Ma l’amore è parte della vita, perché questo tipo di censura? Ho visionato oltre 500 film egiziani, degli anni ’40/’90, prendendo solo i pochi secondi del bacio. In tutto sono 28 minuti di baci. Tra gli attori di tutti i tempi c’è anche Oum Kalthoum. Se la gente fosse libera di amare, essere se stessa, avere rispetto per l’altro – nel cinema come nella vita – non ci sarebbero tanti problemi.

Lei non fotografa in digitale. Nel ricorrere alla tecnica tradizionale della fotografia in bianco e nero che stampa in camera oscura e su cui interviene dipingendo con i colori all’anilina, c’è anche una componente nostalgica?
All’inizio fotografavo solo in bianco e nero, poi ho sentito l’esigenza di vedere il mio lavoro a colori. Ma non volevo usare la pellicola a colori, un linguaggio che non mi apparteneva. Così ho cercato i vecchi laboratori, ad Alessandria e al Cairo, dove c’erano ancora fotografi che ritoccavano a mano le immagini colorandole. Volevo imparare da loro questa tecnica antica che amavo attraverso il cinema, i vecchi ritratti di famiglia e anche i manifesti dei film che collezionavo. La componente nostalgica riguarda semplicemente il mio innamoramento per la tecnica, la pellicola, la stampa alla gelatina ai sali d’argento, la grana, la magia di non sapere cosa succede, quando si scatta una fotografia, finché non viene sviluppata e stampata. Mi piace la scoperta e anche il passaggio della pittura.

In «Once Upon a Dream» la formula ricorrente dell’autoritratto sembra un momento di pausa nel ritmo del racconto…
Ho sempre fatto autoritratti, anche quando ero in Egitto. Quando, poi, nel 2003 ho lasciato il paese per andare a Parigi – dove ero stato invitato per la residenza d’artista di dieci mesi alla Cité internationale des arts e da lì, nel 2006 a New York – mi sono ritrovato solo, senza il cinema, la famiglia, l’Egitto. Insomma senza tutto il mio mondo, allora ho iniziato a ripensare alla mia vita, al significato di partenza. Per la prima volta, nel lavoro, potevo usare la mia presenza in maniera così intensa. Decisi di fare serie di autoritratti ovunque andassi. Nella maggior parte dei casi non mostro il mio volto perché chiunque possa rispecchiarsi nell’immagine.

Nel 2009, lei si è autoritratto agli Uffizi davanti alla « Primavera» di Botticelli («Self-portrait with Botticelli»), una pratica che oggi ripetono anche le nuove generazioni di influencer…
Quando ero piccolo, la mia famiglia andò alla fiera del libro al Cairo. Tornarono a casa con dei volumi e un grande poster della Primavera che fu incorniciato. Non sapendo dove metterlo lo appesero nella mia stanza. Ho dormito accanto a quest’immagine per anni. Ogni notte era l’ultima cosa che vedevo e la prima quando, la mattina, aprivo gli occhi. Non sapevo nulla di Botticelli, ma interpretavo a modo mio il dipinto. La figura blu nell’angolo poteva essere un diavolo, la scena il paradiso, la figura centrale la vergine Maria… nulla che avesse a che fare con l’iconografia dell’opera. Da adolescente, poi, tolsi quel poster per metterne altri pop, solo parecchi anni dopo mi resi conto che si trattava di un capolavoro del Rinascimento. Allora scrissi al direttore degli Uffizi, gli raccontai la storia e gli espressi il desiderio di dormire di nuovo accanto alla Primavera di Botticelli. Stavolta quella vera. Lui accettò. Mi dettero il permesso di lunedì mattina, a museo è chiuso. Arrivai alle 7 del mattino indossando la galabeya egiziana e rimasi per circa un’ora e mezza sdraiato, circondato da almeno quindici guardie tra security e poliziotti. Però ho potuto finalmente dormire di nuovo accanto alla Primavera!