Dei suoi «magnifici quattro» di Alessandria, ciclo iniziato nel 1978 con Alessandria…perché? – e proseguito in La memoria (1982), Alessandria ancora e per sempre (1990) e Alessandria…New York (2004) – diceva: «Racconto di una Alessandria dove c’era la straordinaria intelligenza di vivere tra differenti etnie e religioni. Come abbiamo potuto perderla? Abbiamo vissuto questa intelligenza. A chi giovava distruggerla? Chi è che collabora a farci subire questa tragedia? Quali sono le classi che dominano e quelle che dirigono?». Lui, Youssef Chahine, nelle sue immagini cercava continuamente di ritrovarla quell’«intelligenza» capovolgendo dall’interno sia i meccanismi della Hollywood sul Nilo sia i codici mediatici con cui colonialismo e post-colonialismo continuano a restituire l’immagine dell’oriente, delle arabe e degli arabi – accordata all’oscurantismo dei governi quasi in una reciprocità di sovranismi.

Per questo era malvisto dai poteri (e non solo dai potenti), dai burocrati e dai fondamentalisti: era uno spirito libertario e cosmopolita, madre greca, moglie francese, adolescenza e studi negli Usa, cristiano che ha vissuto la sua vita in un Paese a maggioranza musulmana, sempre con chi lotta nell’interesse di tutti e non «di parte», dietro alla macchina da presa in una prima persona collettiva. La censura lo ha colpito più volte, ha sfiorato una dura condanna per offesa alla religione dopo l’anteprima di L’emigrante (1994), è stato arrestato, ha scelto l’autoesilio (in Libano e in Francia), ha subìto persecuzioni, minacce di morte. Il suo è un pensiero «dal basso» che continua a spaventare perché irrompe nei dogmi e nelle strumentalizzazioni, le stesse a cui si appigliano i politici come il nostro ministro degli interni o i governanti dell’Europa tutta.

È  DUNQUE ancora più speciale – senza dimenticare che nonostante la fama mondiale i suoi film in Italia si sono visti poco – l’omaggio che il Cinema Ritrovato ha dedicato al regista egiziano morto nel 2007 (il 27 luglio) curato da Tewfik Hakem – in collaborazione con la Cinémathèque Française e l’Association Youssef Chahine – col titolo: «Chahine: glamour, musica e rivoluzione. L’ultimo degli ottimisti arabi» in «double ticket« con «Cinema libero. Fespaco» ovvero la nouvelle vague africana alla prima persona ancora collettiva, anticolonialista e «dal basso» a partire dalla creazione del Festival di Ouagadougou voluto da Sankara. Nel cinema – o meglio nell’immaginario – vedeva lo strumento del panafricanismo, di un’ indipendenza del continente con cui scrivere la propria narrazione che illuminasse le responsabilità storiche politiche, economiche dell’occidente (così come dei governanti africani) passate e presenti.

Chahine nel cinema aveva fatto tutto: regista, attore, produttore, cantante, montatore, aveva anche aperto una sala al Cairo dove proiettare i film che altrimenti nessuno in Egitto avrebbe visto. Il suo ottimismo è una risata o una canzone con cui terrorizzare fanatici e despoti, è il gesto di un cinema che mischia artigianato e spettacolarità, grandi divi – come Omar Sharif – e gente comune, vita, amore, sentimenti. Così questo marxista alessandrino che ci ha mostrato l’Islam illuminista e laico, ci ha raccontato la «ricchezza» e l’intollerabilità della povertà, il mondo operaio, le rivolte contadine, l’indipendenza tortuosa dal Regno Unito, lo «scandalo di Suez, Nasser, le contraddizioni della borghesia egiziana senza mai essere un regista d’elite. Anzi dopo il fallimento del suo primo film, Gare centrale (1958) – nel programma della rassegna – aveva cercato una cifra ancora più popolare. Ma cosa significa «popolare»? Gare centrale è ambientato alla stazione centrale del Cairo, racconta di un uomo, venditore ambulante di giornali, ossessionato da una ragazza, che vende bibite. Lei però è presa da un altro, un facchino, rappresentante sindacale dei lavoratori poveri.

IL REGISTA interpreta il ruolo dell’ambulante, zoppo e solitario, che nella baracca colleziona fotografie di pin-up ed è «frustrato fino a diventare ossessivo». Il pubblico lo fischiò alla prima, non sopportando la violenza con cui si addentrava tra i tabù della società egiziana moltiplicando i punti di vista, i personaggi, i piani del racconto e ridicolizzando già allora i fondamentalisti del tempo e di oggi. La «Gare centrale» diviene un microcosmo che intreccia infiniti destini umani, ragazzini e ragazzine, facchini, giovani amanti clandestini, e dove il regista prende posizione contro i veli imposti alle donne, a favore della libertà di amare, per le lotte sindacali, per i più miseri che la società egiziana (e non solo) esclude. Su tutte le figure si impone il personaggio di Hamouna, una donna, in una lotta contro il machismo e la follia che sarà mortale.

Chahine del suo fare cinema diceva: «Sono un testimone del mio tempo, il mio dovere è interrogare, informare, riflettere». E lotta di classe nei suoi film significa musical, melò, star – ricordiamo anche Dalida – in un sistema che rivoluziona i generi e i linguaggi.

QUANDO nel 1968 gira Un jour, le Nil pensato per celebrare le relazioni tra Egitto e Urss e l’edificazione della diga di Assuan, realizza invece un film critico in cui denuncia l’inondazione dei villaggi e la «deportazione» dei nubiani che viene proibito e distrutto – l’originale si salva grazie a Henri Langlois – mentre il regista deve rifugiarsi in Libano. Ma, appunto, questo è il suo cinema, festivo e mai sottomesso, libero e in rivolta. È ciò che lo rende più che mai indispensabile e prezioso.