Avrebbe probabilmente lavorato in uno stabilimento tessile nel suo paese, dove le donne cuciono a basso costo abbigliamento per i marchi europei, se non fosse arrivata dal Marocco adolescente con i suoi genitori. Cabira (nome di fantasia, come gli altri che seguono) oggi è una delle figure di riferimento nella lotta che all’interporto di Bologna stanno portando avanti le lavoratici (soprattutto) e i lavoratori del marchio Yoox, leader italiano nell’e-commerce dell’abbigliamento, per migliori condizioni contrattuali e di lavoro ma anche per farla finita con ricatti, abusi e molestie a sfondo sessuale. Benché sia riuscita a mettere una distanza tra sé e gli sweatshop alla periferia dell’Europa, Cabira si ritrova impigliata nelle stesse maglie dello sfruttamento: interminabili ore di lavoro, bassi salari, assenza di tutele e garanzie. Un segno di come l’intera filiera dell’industria tessile e dell’abbigliamento sia soggetta a una pesante deregolamentazione e al costante taglio del costo del lavoro a partire soprattutto da processi spinti di genderizzazione e razzializzazione del lavoro.

Nei magazzini che la cooperativa Mr.Job gestisce in subappalto per Yoox, il genere e la razza non sono solo dispositivi di sfruttamento, sono anche terreno di abusi e molestie. Fatima racconta di come il responsabile di magazzino che le fa continui appunti sul suo modo di lavorare, arrivando anche a sospenderla, abbia poi finto per dirle che «se fosse stata più ‘carina’ con lui le cose sarebbero cambiate». Un’altra ragazza racconta di un abbraccio morboso dal quale un po’ spiazzata non è riuscita a sottrarsi e di uno sgradito bacio sul collo. Tutte poi riferiscono di gravi atteggiamenti lesivi della stessa dignità umana. «Durante il Ramadan – racconta Haifa – mentre noi lavoriamo in questi capannoni dove la temperatura arriva ai 40 gradi, c’è sempre qualcuno dei responsabili che arriva con una bottiglia d’acqua fresca e la beve d’avanti a te con gusto». Tra le uscite «sconvenienti» dei capi reparto va annoverato il «devi scegliere tra me, dio e lo stipendio». Il razzismo che si tinge di islamofobia. È in questo clima di continui abusi, molestie e minacce, di carichi di lavoro insostenibili (fino a 110 pezzi – stirati, piegati e imbustati – l’ora, a fronte degli 80 previsti dal contratto), di ferie forzate e straordinari non retribuiti (8 ore al giorno anche se il contratto ne prevede 6) e condizioni lavorative semi-schiavistiche, che all’inizio di maggio è partita la mobilitazione. «Ne abbiamo abbastanza» è il leitmotiv sin dal primo sciopero a inizio giugno, quando a rimanere fuori dal magazzino è solo un piccolo gruppo di lavoratrici. In tante hanno ancora paura, temono le ritorsioni, ma nelle successive giornate di sciopero cresce il numero di quante, pur preoccupate per le sorti del proprio permesso di soggiorno, sono disposte ad andare avanti. «Non abbiamo da perdere che le nostre catene»: a parlare non sono Marx ed Engels, è Talita giovane brasiliana da una decina d’anni in Italia. Da tre nei magazzini Mr.Job. Nei mesi precedenti si erano rivolte al SI Cobas, che con le lotte ha ottenuto importanti successi in altri magazzini dell’interporto, per migliorare le proprie condizioni contrattuali e di lavoro. Ma poi lo sciopero era cominciato soprattutto in solidarietà ad alcune colleghe che, per la loro attività sindacale, erano state messe forzatamente in ferie o spostate in altri magazzini. «Un modo – precisa Sawda – per farci stare zitte. Ma non era giusto. Così abbiamo iniziato a lottare».

Un segno di come solidarietà e cooperazione attiva nella lotta siano uno straordinario strumento contro lo sfruttamento sul lavoro e il razzismo e il sessismo. Il 13 giugno, in solidarietà a due colleghe sospese ingiustificatamente, è partito la sciopero con annesso blocco della merci in entrata e uscita. Questa volta, almeno in quaranta hanno lasciato il magazzino dove lavorano circa 80 persone. Il giorno successivo per rimuovere il blocco è dovuta intervenire la celere. Il 7 luglio, i dipendenti Mr.Job, molti dei quali lavorano in altri magazzini, sono stati costretti a inscenare un sit-in in supporto alla cooperativa. Karim, una delle figure di riferimento delle lotte nella logistica di distribuzione, ha denunciato sul suo account facebook il tentativo da parte dell’azienda «di ripulire l’immagine che e stata sporcata» dalle lotte. La magistratura bolognese sta indagando sulle vessazioni, il mobbing, razzismo e le molestie sessuali denunciate dalle lavoratrici. L’azienda ha dichiarato di essere pronta a prendere provvedimenti una volta fatta luce sull’accaduto. Dall’esposto risulta che sarebbero sette i caporeparto, tre le donne, autori delle molestie.