Davi Kopenawa, portavoce della popolazione amerindiana Yanomami, venuto a Parigi per l’inaugurazione della mostra della fotografa Claudia Andujar alla Fondation Cartier (fino al 10 maggio), mette in guardia: «i bianchi distruggono l’Amazzonia perché non sanno sognare. Se potessero sentire, come noi, parole diverse da quelle delle merci, saprebbero mostrarsi meno ostili nei nostri confronti. Noi conosciamo i pericoli, sappiamo interpretare i segnali. I capitalisti, i politici e i grandi uomini d’affari vogliono strappare tutte le radici della terra, non possono immaginare che a forza di estrarre tutti i minerali faranno cadere il cielo. Bolsonaro fa molto rumore, abbaia come un cane, ma quando il cielo cadrà non si sentirà più niente».

Oggi, circa 25mila cercatori d’oro sono all’opera sul territorio Yanomami, una zona ampia come il Portogallo, nel nord-ovest del Brasile e fino al Venezuela, che nel 1992 era stata riconosciuta dal Brasile e delimitata per decreto presidenziale, grazie anche all’impegno della fotografa Claudia Andujar. Ventotto anni dopo, la politica di Bolsonaro minaccia l’integrità di questo territorio e la vita delle circa 35mila persone che vi vivono.

È LA STORIA DELL’INCONTRO iniziato negli anni Settanta tra questi abitanti e la fotografa di origine svizzera, nata nel 1931, che racconta la mostra della Fondation Cartier, un’esposizione già presentata in Brasile tra il 2015 e il 2019: circa 300 fotografie, con documenti storici e una raccolta di disegni realizzati da artisti Yanomami.

La mostra è divisa in due parti: al pian terreno dell’edificio di Jean Nouvel delle immagini fluttuanti, oniriche, che cercando di invitare a un nuovo modo di vedere la cultura e il modo di vita danno voce a questa popolazione. Con tecniche dagli effetti surreali la fotografia cerca di cogliere l’invisibile della concezione del mondo Yanomami, la loro interpretazione metafisica attraverso i riti degli sciamani. Nel seminterrato, c’è invece la parte militante del lavoro di Andujar: la fotografia illustra la tragedia e diventa strumento al servizio del cambiamento politico. C’è una costante: «non c’è curiosità, come alcuni hanno verso un luogo esotico – ha spiegato la fotografa – per me era sempre una relazione da essere umano a essere umano».

Una foto di Claudia Andujar

La tragedia inizia oltre mezzo secolo fa quando la giunta militare brasiliana avvia il progetto di costruzione di una strada transamazzonica, all’estremo nord del paese, la Perimetral norte (progetto poi abbandonato nel 1977 per mancanza di fondi). Questi lavori portano violenza, distruzione sociale e epidemie nelle terre Yanomami, che continueranno nei decenni successivi. Negli anni Ottanta viene decimato il 15% della popolazione in seguito all’invasione di 40mila cercatori d’oro illegali, negli anni Novanta Jair Bolsonaro, allora deputato, presenta un progetto per annullare la demarcazione del territorio Yanomami per favorire lo sfruttamento dei minerali e la deforestazione per l’agricoltura, idea riproposta nel 2018 dall’attuale presidente, che ha permesso una nuova invasione di cercatori d’oro.

UN PRIMO ABBOZZO di un territorio Yanomami è del 1988, tre anni dopo la fine della dittatura militare, dopo una nuova offensiva violenta dei cercatori d’oro, ma il progetto continua ad essere fortemente contrastato fino al 1992, quando il governo lo riconosce per darsi una facciata presentabile in occasione del Summit di Rio sull’ambiente dell’Onu. La creazione del territorio è la realizzazione di un progetto della Commissione pro Yanomami, una ong fondata da Andujar, assieme al missionario di origine italiana, Carlo Zacquini, gran conoscitore della regione dove ha trascorso gran parte della vita e, tra gli altri, dall’antropologo francese Bruce Albert. La Commissione organizza una campagna di vaccinazioni nei primi anni Ottanta, contro le malattie portate dai bianchi, tubercolosi, morbillo, pertosse, influenza.

A quell’epoca, gli Yanomami non hanno nomi portoghesi che permettano di identificarli, i loro nomi locali cambiano nel corso della vita. I medici li identificano con dei numeri. Claudia Andujar fotografa queste persone, con il numero, e nel 2009, per una mostra dal titolo «Marcados», fa un parallelo con la propria storia: il padre era ebreo e tutta la famiglia paterna era stata «marchiata» dalla stella gialla. «È un sentimento ambiguo che mi ha portato, 60 anni dopo – spiega – a trasformare quello che all’inizio era un semplice censimento in un’opera che interroga questo metodo che consiste nell’etichettare gli esseri umani per diversi fini».