C’eravamo appena messi alle spalle un 2012 terribile, vissuto tra epurazioni, scontri interni e guerre di tutti contro tutti nel Partito Comunista cinese. Il 2013 con la nomina a Presidente e l’inizio del regno di Xi Jinping, pareva potesse nascere sotto gli auspici di una consolidata leadership, nuovamente unita e collegiale nelle sue decisioni. L’oggetto del mistero, ovvero Xi Jinping, però, sembra avere idee diverse.

Innanzitutto, ha lanciato una feroce campagna contro la corruzione. Si dirà, un’altra? Vero e del resto in Cina – e non solo, anche tra gli osservatori internazionali– c’è un dibattito che sa tanto di ricerca impossibile: ci si chiede, quando è cominciato questo fenomeno della corruzione a ogni livello della piramide sociale cinese? Durante gli anni ’80? O forse con l’accelerazione neoliberista degli anni ’90? Il problema per i funzionari corrotti cinesi è che Xi ha promesso di colpire «sia le mosche sia le tigri»; una caccia totale, nella cui rete rischiano di finire anche personaggi importanti.

Uno di loro, attorno al quale da tempo girano strane voci, sarebbe niente meno che Zhou Yongkang. Ex numero nove del Comitato Permanente del Politburo, Zhou era soprattutto due cose: il capo della sicurezza nazionale e – pare- l’anima oscura che gestiva tutto il business petrolifero cinese. Durante lo scandalo che provocò la disfatta di Bo Xilai, rischiò grosso perché veniva considerato un alleato dell’ex boss di Chongqing. I suoi contatti con Jiang Zemin pare gli abbiano salvato la testa, ma ora che è in pensione il rischio di essere pizzicato dalla giustizia cinese è tornato ad essere reale. Lo dicono alcuni dati. Il primo, simbolico: proprio nei giorni in cui si è parlato insistentemente di un cerchio che si stringeva intorno all’ex zar della sicurezza cinese, Zhou è apparso in pubblico, come vuole la tradizione per i funzionari dati in bilico, con una visita alla sua vecchia scuola media a Suzhou.

Il secondo dato purtroppo per Zhou, è più reale: i suoi fidi collaboratori – all’epoca del suo incarico come capo del Partito del Sichuan – sono finiti tutti sotto inchiesta «per gravi violazioni disciplinari» che tradotto dalla lingua del PCC significa una cosa sola: corruzione. L’ex vice-governatore del Sichuan, Guo Yongxiang, alleato fidato di Zhou è indagato, così come Li Chuncheng, ex vice segretario del partito del Sichuan, altro stretto collaboratore di Zhou. Quest’ultimo è stato il primo alto funzionario a finire nella rete della nuova campagna anti corruzione lanciata da Xi Jinping. Infine nel mirino dei giudici è finita anche Wu Yongwen, ex vice capo del Congresso popolare dello Hubei, altro alleato di Zhou. Questa campagna lanciata da Xi Jinping sembra non essere «una delle solite».

Lo dimostrerebbero altri segnali lanciati dal segretario del Partito. In una inusuale riunione a fine giugno del Comitato Permanente, Xi avrebbe lanciato pesanti avvisi ai funzionari riuniti e non solo a loro. L’idea che ci si è fatti in Cina è che la campagna anti corruzione possa essere solo l’inizio di qualcosa di molto più grande. Xi ha avvisato i membri del Partito a pensare anche alle proprie doti morali e non solo, perché ha specificato che nella valutazione dei singoli funzionari, per il loro avanzamento di carriera, d’ora in avanti non faranno testo solo i dati economici. Si valuteranno infatti anche «il miglioramento della vita delle persone, lo sviluppo della società locale e la qualità dell’ambiente».

Cosa potrebbe significare questo ribaltamento della logica denghiana, basata su criteri esclusivamente economici, è ancora presto per dirlo, ma di sicuro costituisce una novità importante, che pone Xi Jinping come un leader molto più forte e determinato, di quanto forse si era pensato all’inizio della sua ascesa.