«L’essere umano è un abisso, vengono le vertigini a guardare giù»: così recita a un certo punto il protagonista omonimo di Wozzeck (1925) di Alban Berg, dando una chiave interpretativa dell’opera di lapidaria e lancinante sintesi. Non occorre cercare altrove, fuori dal testo: come ogni grande testo, che apre delle porte sul mondo, le chiavi per aprire quelle porte Wozzeck le contiene, esponendole in bella vista. Il grande interprete deve solo essere capace di guardare e allungare la mano. Berg stesso, autore del libretto, ha guardato con attenzione ai frammenti incompiuti del Woyzeck (1836-37) di Georg Büchner, seppure in un’edizione filologicamente sciagurata (fin dal misreading del titolo), prelevandone l’essenziale, in cui si fondono suggestioni di Hoffmann e Shakespeare (inequivocabili il pugnale e le mani insanguinate di Macbeth), modellandolo in tre atti di cinque scene ciascuno e cercando una coincidenza perfetta tra ragioni drammatiche e ragioni musicali.

L’impianto antinaturalistico dell’originale, che più che un omicidio per gelosia racconta una storia di oppressione sociale e del gesto rituale compiuto per liberarsene, viene tradotto in un uso espressionistico delle voci e degli strumenti che modella una timbrica a tratti visionaria, in un’amministrazione dell’atonalità libera e ambigua, per cui vi sono alcune zone della partitura che sembrano ancora suggerire un’interpretazione tonale e subito la smentiscono, altre che imboccano la via della dissoluzione senza ritorno, portando alle estreme conseguenze l’eredità lacerante di Mahler.

Ingo Metzmacher, direttore dell’allestimento in scena in questi giorni al Teatro alla Scala di Milano (repliche fino al 13 novembre), ripresa di un classico del 1997 (con la direzione di Giuseppe Sinopoli) , il regista.

Jürgen Flimm, lo scenografo Erich Wonder, la costumista Florence Von Gerkan e il light designer Marco Filibeck guardano e allungano la mano anch’essi da grandi interpreti, dando forma a uno spettacolo di rara compiutezza. La scena, rossa e fissa per i tre atti, è costituita da una parete di fondo che attraverso un’apertura a forma di occhio semichiuso lascia intravvedere paesaggi stilizzati e da due pareti concave al centro, sezioni di cilindri ellittici che avvolgono i personaggi e accolgono lo sguardo del pubblico.

I vari ambienti del dramma, indiziati via via da pochi oggetti di scena e da un uso selettivo delle luci radenti, sono affollati di gente che sfila macchinalmente come in un quadro di Grosz, in contrasto con la concitazione espressionistica con cui si muovono i grigi protagonisti di una storia che sprofonda nel nero, fatta di desolazione, incubi, pazzia e sangue (il poveretto costretto a esperimenti medici, tradito dalla moglie, uxoricida, che si lascia coprire dalle acque mentre cerca il coltello insanguinato).

Metzmacher dirige senza intervalli modellando un suono plastico, denso, compatto, senza nulla togliere al lirismo che affiora apparentemente inopinato dalle pieghe della partitura e cercando una passionalità che culmina com’è ovvio nel famoso ultimo intermezzo, scolpito come un epicedio di Strauss e Puccini. La temperatura emotiva del tutto, fino ai confini di un verismo ribaltato, si tocca con mano nella prestazione eccellente dei cantanti: gli acclamati Michael Volle (Wozzeck) e Ricarda Merbeth (Marie), così come Roberto Saccà (Tamburmaggiore), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Capitano), Alain Coulombe (il Dottore).