«…How can we combine the old words in new orders so they survive, so they create beauty, so that they tell the truth? That is the question.» (Come possiamo combinare le vecchie parole in nuovi ordini così che sopravvivano, così che creino bellezza, così che dicano la verità? Questo è il punto.) È la voce di Virginia Woolf, nell’unica registrazione esistente del 1937 per un programma radiofonico della BBC, ad aprire Woolf Works, capolavoro del coreografo Wayne McGregor nato per Alessandra Ferri e il Royal Ballet di Londra due anni fa, musica originale di Max Richter, tornato in scena al Covent Garden in occasione dei dieci anni di residenza di McGregor al Royal Ballet e presentato per la prima volta in Italia grazie all’iniziativa della danza al cinema in diretta dal teatro londinese (con Nexo Digital).

Uno spettacolo travolgente per ricchezza di composizione coreografica, elaborazione musicale, levatura interpretativa, capacità di farci viaggiare nel fluire delle emozioni della scrittura di Woolf. Se al cinema i molti primi piani mettono in luce in primis la potenza attoriale di Ferri e lo spessore della drammaturgia (di Uzma Hameed), a rivelarsi pienamente a Londra è l’articolazione coreografica nello spazio, il rapporto del movimento con l’invenzione scenografica e con la spazializzazione della partitura di Richter dalla buca d’orchestra alla sala tra esecuzione dal vivo e musica elettronica pre-registrata.

Lo spettacolo si divide in tre parti, I now, I then (da Mrs. Dalloway), Becomings (da Orlando), Tuesday (da The Waves). Tre romanzi tra i maggiori di Woolf che McGregor, noto per il suo lavoro sul linguaggio della danza cresciuto anche alla luce delle neuroscienze, attraversa insieme ai suoi collaboratori con visioni tra passato e presente sostenute dal ritmo della scrittura. Woolf: «lo stile letterario è ritmo… il ritmo va più in profondità delle parole».

 

I now, I then è Londra, le vie, i fiori e i giardini (proiezioni del film designer Ravi Deepres), immagini che si fondono con il movimento lento di tre grandi cornici di legno tra le quali appare Alessandra Ferri, che è Virginia ma anche Mrs. Dalloway: il suo passeggiare tra le cornici, i suoi duetti sono l’anima dello spettacolo, «una figura della vita», come scrive Nadia Fusini di Mrs. Dalloway, in cui il presente contempla in sé la tensione emotiva del passato e del futuro. Ferri danza con Federico Bonelli, Edward Watson, Francesca Hayward, Beatriz Srix-Brunell (cast ottimo), ed è come se vedessimo negli altri la giovinezza di Mrs. Dalloway, gli amori, le amicizie, Peter Walsh e l’amica Sally, ma anche Septimus Warren Smith (Watson), il martire di guerra del romanzo che si uccide come accadrà a Virginia. McGregor trasforma in coreografia quell’andare avanti indietro sul viale della vita del romanzo: compresenza di figure danzanti su una musica elusiva governata da uno schema metrico costantemente instabile come è il ritmo del racconto di Mrs. Dalloway.

Becomings, da Orlando, è la trasformazione nei secoli, il gender in mutazione nell’intreccio vorace tra maschile e femminile, nell’avanzare e sparire dei gruppi, nei soli. Le parti del corpo si slanciano, piegano, contraggono, aprono, saettano sulla musica di Richter che in miriadi di variazioni strumentali e elettroniche elabora, sfrecciante, il tema antico della Follia. Costumi dorati con gorgiere, corpetti o pantaloni bronzei sulle tute aderenti unisex, Royal Ballet al top, capitanato da fuoriclasse come Natalia Osipova e Steven McRae, mentre colorati raggi laser in 3D si espandono dalla scena su platea e gli alti ordini.

Ed ecco Tuesday  da The Waves. Fuori campo una voce femminile legge l’ultima lettera di Virginia al marito, prima del suicidio tra le onde: «Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo… Non posso più combattere…» Su un basso continuo musicale, la melodia si costruisce per onde fragorose che poi scemano verso la pace. Sullo sfondo le riprese in slow del mare agitato. Davanti c’è Alessandra Ferri, abito nero trasparente, bambini che arrivano sulle rive giocando, la fanciullezza amata da accarezzare e salutare, preparandosi alla morte. Il passo a due tra Ferri e Bonelli è una danza di addio, accompagnata da un corpo di ballo in nero, personificazione delle onde o forse di chi è già in un mondo separato dal nostro. In Ferri percepiamo la ineluttabilità del destino in quell’abbandonarsi del corpo alla natura, con le onde lente, grandissime che non smettono di frangersi, one, two, one two… Ed è profonda commozione nel pubblico del Covent per Ferri e per uno spettacolo che sarebbe bello venisse allestito anche in Italia.