«O Glorioso Retorno de Quem Nunca Esteve Aqui» («Il glorioso ritorno di quelli che non sono mai stati qui»): è il titolo ossimorico dell’album d’esordio di un rapper di San Paolo, Emicida, ma sembra anche l’insegna tragicomica dell’esodo che si consuma a poche centinaia di chilometri dalla capitale magiara, in quel reticolo di confine su cui premono migliaia di profughi fuggiti da Siria, Kurdistan e Iraq.

È un esodo che il governo Orban sta provando a respingere e ostacolare in ogni modo e che pure, inevitabilmente, continua a premere su quel confine. Quella di Emicida non è solo una citazione suggestiva. Il rapper brasiliano stazionava in questi giorni a Budapest, per esibirsi insieme a centinaia di artisti davanti alle migliaia di addetti ai lavori convenuti in Ungheria per presenziare il più importante ritrovo annuale dei professionisti della World Music, il Womex.

Un appuntamento itinerante, che cambia sede quasi ogni anno (l’anno prossimo tornerà a Santiago de Compostela dove si era già celebrata l’edizione 2014) e nel 2015 era stato fissato in un periodo e in una città che inevitabilmente si caricavano di motivazioni, significati e proposte ancora più urgenti del solito. È chiaro che una kermesse votata alla valorizzazione del dialogo tra le culture e alla preservazione delle musiche di matrice etnica (anche delle più remote e bistrattate, delle meno pubblicizzate e delle più difficili da veicolare) non poteva «passare» da Budapest in questo drammatico frangente storico senza dare qualche segnale e far sentire la propria voce in materia di «accoglienza» e di «accettazione». «No one is illegal» e «Welcome Diversity!» erano gli slogan scelti dagli organizzatori per chiarire senza ambiguità il punto di vista di questa comunità di appassionati, artisti, giornalisti, manager, discografici.

Ci si aspettava magari anche qualche focus tematico più spudorato (ad esempio la presenza di un artista siriano o iracheno nel programma concertistico) ma è pur vero che di «segnali« in linea con la filosofia della kermesse ne sono stati lanciati tanti in questo weekend magiaro, dalla serata d’apertura dedicata all’influenza della cultura Rom nella musica ungherese (con le esibizioni di Attila Oláh, Tcha Limberger, Romengo & Mónika Lakatos e Bea Palya) ai tanti convegni con temi inequivocabili (sul problema dei visti per i musicisti, sull’importanza dell’educazione musicale nelle zone di guerra pacificate, sul rapporto tra tutela delle culture tradizionali e nazionalismi…), fino alla proiezione di bellissimi documentari sulle musiche kossovare, sami, armene, maliane, egiziane e libanesi: visioni e ascolti emblematici dei processi legati anche alla stratificazione multiculturale, alle diaspore d’ogni tipo e al rispetto delle identità minoritarie.

27visdxaperturaVaudou Game

Anche le location scelte per accogliere i vari eventi del Womex ungherese ovvero Il Bálna (per la fiera, le proiezioni e i panel pomeridiani), il Müpa (per i concerti serali) e l’A38 Ship (per i dj set notturni) avevano una loro priorità simbolica essendo tutti piazzati sugli argini di quella vera e propria autostrada transculturale che è da sempre il Danubio. Fin qui dunque le premesse teoriche.

Per le conferme, le delusioni e le scoperte concertistiche occorreva invece selezionare ogni giorno un fitto calendario di spostamenti e ballonzolare tra i cinque palchi adibiti all’uopo per un totale di più di cinquanta showcases. Alla categoria delle «conferme con lode» vanno sicuramente ascritti i set di Aziza Brahim, portavoce della cultura saharawi, del senegalese Cheikh Lô (che ha ricevuto l’Award alla carriera), del ghanese Pat Thomas e del coro georgiano Iberi. Nel catino scomodo delle «cocenti delusioni sonore»inseriamo senz’altro i cinesi Nine Treasures con il loro metal senza costrutto, i giapponesi Kachimba4 con la loro salsa claudicante e derivativa e le israelo-yemenite A-Wa con un progetto dalle tante potenzialità tradotto in risultati discreti dal punto di vista vocale, ma decisamente banali dal punto di vista degli arrangiamenti strumentali.

Quanto alle sorprese, che sono poi il surplus qualitativo di ogni Womex che si rispetti, scegliamo senza indugi il camerunese Blick Bassy (canzone d’autore cantata in lingua «bassà» e arrangiata magnificamente), le polacche Sutari (tre polistrumentiste e vocalist che mescolano folk e modernariato alla Cocorosie), i Vaudou Game (capitanati dal fenomenale chitarrista e cantante del Togo, Peter Solo) e, infine, il palestinese Thamer Abu Ghazaleh, arrivato da Ramallah con la sua musica arcigna, dura, evoluta, intransigente. Per ricordare a tutti che ci sono posti nel mondo in cui per vedere «le drammatiche notizie del telegiornale» basta solo affacciarsi alla finestra.