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Wissal Houbabi: «Il problema non è l’islam e l’occidente non è la soluzione»

Wissal Houbabi: «Il problema non è  l’islam e l’occidente  non è la soluzione»Wissal Houbabi

Saman Abbas L'attivista femminista di seconda generazione: «La violenza maschile non è una caratteristica solo delle comunità islamiche. Bisogna sapersi districare tra la propaganda razzista e l’ invisibilità di un sistema patriarcale. Serve un’interpretazione intersezionale»

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 10 giugno 2021

Wissal Houbabi è attivista femminista intersezionale. Ama hip hop e cultural studies. Nata nel 1994 in Marocco, è cresciuta in Italia. Scrive poesie, articoli e canzoni.

Per ragazze come Saman Abbas l’islam è il problema e la società occidentale la soluzione?

Nessuna delle due. L’islam è una religione. Come per tutte le religioni bisogna vedere chi la rappresenta. Alcune persone usano l’islam come una scusa, ma agiscono in modo arbitrario. La cultura occidentale non è la risposta: in queste vicende funziona come un fattore di giudizio. Ci si sofferma sul fatto che il delitto venga da un islamico estremista più che sulla morte di una donna. Lo sguardo è sempre rivolto verso ciò che ci fa paura: l’islam, la religione che ci sta invadendo, le persone barbare e arretrate. Quello su cui dobbiamo concentrarci è che probabilmente una ragazza è stata uccisa perché i suoi diritti sono stati violati.

La fatwa è uno strumento per risolvere il problema dei matrimoni forzati?

Non lo è. Ma una presa di posizione delle comunità islamiche ha un valore autorevole. Soprattutto per chi riconosce un ente come l’Unità delle comunità islamiche in Italia (Ucoii). Comunque viviamo in uno stato di diritto in cui si danno risposte legislative universali a problematiche universali. Qui stiamo parlando di femminicidio e violenza maschile contro una donna. Che sia di un’altra cultura o origine, che si utilizzi il presunto onore della religione islamica importa meno. L’Ucoii adesso dovrebbe collaborare con i centri antiviolenza per dimostrare che c’è un riconoscimento della violenza maschile contro le donne, per intercettare le donne che vedono le moschee e i centri islamici come punti di riferimento. Nei luoghi di culto servono volantini informativi e lavoro di prevenzione. La comunità islamica stessa deve fare un lavoro di decostruzione del sistema patriarcale.

Dopo episodi come quello di Saman, le comunità islamiche sono puntualmente richiamate al dovere di schierarsi. Come dopo gli attacchi terroristici. Perché?

Essendo una minoranza subiscono l’attacco legato ai pregiudizi che fanno di tutta l’erba un fascio. Quando un gruppo di terroristi uccide e rivendica con l’islam, tutti gli islamici diventano terroristi. Così anche per un femminicidio. Peccato che i femminicidi avvengano ogni tot giorni. La violenza maschile non è una caratteristica solo della comunità islamica. Se per ogni uomo bianco che ammazza una donna dovessi vedere tutti gli altri uomini bianchi con il volto di un femminicida non rilascerei questa intervista.

Sinistra e movimento femminista sono stati timidi su questa storia?

Il movimento femminista purtroppo sì, perché è molto difficile affrontare questo tipo di intersezione. Quando si parla di intersezionalità si pensa a un accumulo di oppressioni che una donna vive sul proprio corpo: sessismo, razzismo, etc. Ma intersezionalità significa anche affrontare il fatto che dentro una comunità ci possa essere una componente misogina. Quando una minoranza, come una famiglia pakistana, compie azioni così atroci serve un’interpretazione intersezionale che restituisca uno sguardo complesso e complessivo sulla realtà. Bisogna sapersi districare tra propaganda razzista e invisibilità di un sistema patriarcale. Capita che il movimento tenda a evitare di esporsi perché è molto difficile farlo. Poi esistono posizionamenti diversi. Ci sono donne islamiche che la vedono diversamente da me, che vengo dalla stessa comunità.

Sembra che la madre della ragazza abbia approvato il piano. La mentalità patriarcale è anche di alcune donne?

La cultura patriarcale ti può annullare completamente nella volontà. È difficile capire cosa pensi una donna che consegna sua figlia. In certi contesti il binarismo dei ruoli fa in modo che l’uomo lavori e la donna si occupi dell’educazione. Quando la figlia non segue i canoni a lei imposti, la responsabilità ricade sulla madre e questo la porta a essere complice. Un’altra gabbia da nominare e decostruire. Il sistema patriarcale è una forma di pensiero strutturale: non si nasce femministe, lo si diventa. È difficile giudicare. Certo è che la donna è stata coinvolta.

Il sistema di accesso a permessi di soggiorno o cittadinanza aiuta le donne nei percorsi di autodeterminazione?

Ci sono dei permessi di soggiorno che possono tutelare, ma funzionano solo al termine di un percorso, dopo che è stata espressa chiaramente la violenza subita. Non sempre è facile. Senza lo ius soli i ricatti di padri e mariti aumentano. Serve la cittadinanza per le nate e cresciute qui come strumento di autodeterminazione. Se è tutto legato al lavoro rimani dipendente dalle volontà dell’uomo.

Il femminismo islamico è possibile o per essere femministe bisogna liberarsi dall’islam?

È assolutamente possibile. L’islam va messo in discussione, in primis dalle donne che dentro le comunità conoscono le strumentalizzazioni della fede che alimentano la violenza maschile. Ci sono femministe islamiche del Nord Africa, del Medio Oriente o italiane che fanno un grosso lavoro. A loro va chiesto solo di riconoscere la libertà di poter scegliere anche l’ateismo.

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