«Per la prima volta, mi resi conto che ero nato nel paese sbagliato» – scoprì Colin Wilson arrivando a Parigi. «Gli inglesi sono incurabilmente superficiali. Questo il motivo per cui la Gran Bretagna era stata così a lungo una piccola isola sicura. Era dal 1066 che non venivamo invasi. Semplicemente, non era nel carattere inglese produrre un Dostoevskij o un Goethe, e nemmeno un Sartre. In Inghilterra non c’era il gusto di trattare quel genere di questioni di cui avevo scritto nell’ Outsider e in Religion and the Rebel – questioni che Reinhold Niebuhr definiva ‘la natura e il destino’ dell’uomo. Chi lo faceva era considerato un eccentrico».
Colin Wilson (1931-2013) è stato anche lui un eccentrico, ma un eccentrico sempre ben accolto. Di famiglia proletaria, lui stesso giovanissimo fu un operaio schizofrenico nella Londra degli anni cinquanta, spesso in fila all’ufficio di collocamento, spesso in lotta con le affittacamere. Era stato vorace lettore già da bambino, imperterrito oratore a Hyde Park Corner, scrittore prolifico, e in simpatia delle stelle, di generosi editori e amici-nemici suoi contemporanei, da Angus Wilson e Charles Osborne – che anche involontariamente contribuirono al suo primo successo – ai sofisticati intellettuali conosciuti in alcolici incontri in varie parti del mondo: Graham Greene, T.S. Eliot (eccezionalmente in chiesa), Isherwood, Miller, Spender… Heidegger gli sfuggì per poco. A suggerirgli di scrivere un diario fu l’esempio di Samuel Pepys, un londinese benestante di tre secoli prima, che aveva tenuto la deliziosa cronaca dei suoi giorni: incontri amorosi, umori, piccoli fatti. In comune hanno una affidabile sincerità e una serena pigrizia ideologica. Per quanto gli fosse simpatico quell’antenato, adiposo forse e di certo gaudente, il giovane Colin severamente decise che il suo diario sarebbe invece servito a capire quale fosse la visione e il posto che lui avrebbe avuto nel mondo, a confrontarsi con i tanti dubbi, a cercare possibili maestri, insomma a «fare anima» come aveva detto l’amato Keats. Era forse il suicidio il modo più onesto per uscire dall’opaco imbroglio della vita?
«Restituire a Dio il biglietto d’ingresso?» – come si intitola il primo capitolo di Oltre i sogni Autobiografia di un outsider (Dreaming to some purpose, 2004), tradotto da Enrico Bistazzoni (pp. 358, € 35,00) per le Edizioni Atlantide di Simone Caltabellota, devoto di Colin Wilson di cui aveva già nel suo ricercato catalogo il famoso Outsider, scritto a ventiquattro anni. La sua università fu la Reading Room del British Museum, allora in Great Russell Str., dove era possibile richiedere in lettura libri a volontà, gentilmente deposti sul tuo tavolo, sempre lo stesso. Sotto la sua cupola d’oro chi scriveva su annose questioni accademiche, chi il suo primo audace libro – come Colin. L’Outsider, pubblicato da Gollancz nel 1956, in effetti assomiglia alla tesi particolarmente ambiziosa di uno studente più sveglio degli altri e più arrabbiato. Dalla vicina Soho giungevano le zaffate violente dei locali a luci rosse, e agli studiosi più giovani non era possibile ignorare le domande fondamentali della vita. Il sabato pomeriggio Colin arrivava in bicicletta dal cantiere o dalla coffee house in cui lavorava e dava la scalata alla sua montagna di esistenzialisti, anarchici, comunque alternativi: Blake, Tolstoj, Dostoevskij, Nietzsche, Sartre, Camus, Hesse, Eliot, Shaw, Yeats, Gurdijeff, Uspenkij… La domenica mattina batteva a macchina le idee, le belle frasi, le risposte raccolte alle sue ansiose domande: il senso di una vita di propria scelta, la forza inarrestabile della volontà, la rinuncia al suicidio, la solitudine dell’outsider, le preziose esperienze di picco, «…la pura gioia di camminare sotto il sole, sapendo che se avessi dovuto scegliere tra Rabelais e gli Uomini vuoti di Eliot, avrei sempre scelto Rabelais».
L’Outsider chiudeva con una frase a effetto: «È un lungo viaggio che si inizia da outsider e si può concludere da santi». E il colpo fortunosamente riuscì. L’Outsider e Ricorda con rabbia, la commedia di John Osborne, rappresentata al Royal Court Theatre, esordirono nella stessa settimana del maggio 1956, l’anno di Suez e dei fatti di Ungheria. I tempi erano maturi per una nuova ondata di giovani scrittori che reagissero al disimpegno e agli antiintellettuali maestri dei primi anni cinquanta (Amis, Wain, Iris Murdoch), prontamente battezzati dai critici più sensibili (Tynan, Toynbee, Connolly) e dalla stampa, The Angry Young Men ( I giovani arrabbiati). Colin, che aveva superato anche la sua astinenza sentimentale e si era fidanzato con la dolce Joy, accettò allegramente la fama improvvisa e divenne un assiduo frequentatore di party e prime teatrali. «La grande musica e la grande poesia sembravano espandere la mia coscienza … Talvolta quando venivo sopraffatto da questa percezione quasi avevo paura di aprire ancora di un poco le porte (della coscienza ndr) nel timore che il suo flusso facesse ancora più irruzione e mi sommergesse. Era un’esperienza che non mi lasciava alcun dubbio al fatto di vedere qualcosa che era veramente là fuori, nel mondo, non dentro di me. Ed era il motivo per cui sentivo l’esigenza di creare una nuova forma di esistenzialismo che non fosse delimitato dal pessimismo…». Le sue virtù, buona volontà e buon umore, scrittura ferma, pulita, trasparente, non erano tali per la disincantata fauna della Londra più sofisticata. La ruota della fortuna cominciò a girare all’incontrario e The Outsider divenne l’albatros appeso al suo collo. Iniziò una discesa che era comunque di successo. Il mondo proletario dell’infanzia gli suggeriva metafore campagnole, e di lì veniva anche il suo ottimismo disarmante.
«La pubblicità negativa aumentava … Mi sembrava di essere caduto nel canale d’acqua di un mulino, in procinto di essere trascinato via, senza alcuna possibilità di aggrapparmi alla sponda. Non avevo nessun dubbio che il destino avesse delle buone intenzioni nei miei confronti – le consultazioni de I Ching mi avevano persuaso in tal senso …». Mise al mondo altri sei figli con l’amata Joy, oltre il primo nato da un precedente matrimonio, e una bibliografia sterminata che riempie gli scaffali di sf, magia, occultismo, crime, paranormale, biografie di uomini eccezionali: Gurdijeff, Mozart, Crowley, Hesse, Borges, Jack the Ripper… Il novecentesco Atlantis Bookshop di Museum Street, di fronte al British Museum, allora polveroso tempio del noir, accoglie oggi i frutti dell’eccezionale fatica di Colin. In Italia è stato spesso pubblicato dalle migliori case editrici. Aldo Rosselli e Enzo Siciliano nel 1958 tradussero The Outsider (Lo straniero), Ettore Capriolo tradusse l’Enciclopedia del delitto, Manganelli segnalò la biografia di Rudolf Steiner ai lettori del Corriere della Sera. Sempre più somigliante a Samuel Pepys in tarda età, seduto con Joy in un pub di campagna per un sandwich e una birra, rifletteva che la benedizione più grande era il senso di libertà, e l’ambizioso possesso di 5.000 libri e 1.500 dischi – come scrive nell’autobiografia. «Seduti fuori a un tavolo di legno, capii quanto ero fortunato ad essere lì e non in una fabbrica o in un ufficio. Per uno che aveva pensato di passare tutta la vita a lavorare per qualcun altro, avere poco danaro era una bazzecola… Certo spendevo troppo per libri e dischi… Spiega anche perché scrivessi così tanto». C’è ancora da scavare in Colin Wilson.