Tra il 1994 e il 2006, spostandosi in diversi paesi del mondo – dagli Stati Uniti al Kazakistan, dal Kenya alla Russia, dalla Colombia al Giappone – William T. Vollmann ha raccolto decine di interviste a persone indigenti, allo scopo di individuare «analogie e differenze» della loro esperienza: Perché sei povero/a? Perché certe persone sono ricche e certe sono povere? Le ragioni degli interpellati variano tra l’attribuzione al karma, alla pigrizia, alla sfortuna, alle decisioni politiche o all’ingordigia dei ricchi.

In quasi tutti, un senso di sfiduciata rassegnazione si associa a una generale accettazione della miseria, e il rancore, se c’è, sembra rivolto più verso se stessi che verso ipotetici colpevoli. «Forse l’ultima volta ero molto ricca e così stavolta devo essere molto povera!», ritiene Sunee, la donna delle pulizie alcolizzata che Vollmann incontra in Thailandia e che diventa subito il centro nevralgico delle sue riflessioni, il nodo da cui si dipartono tutte le storie e a cui il narratore torna costantemente quale pietra di paragone.

Le risposte degli intervistati, insieme al resoconto dei periodi trascorsi con loro e alle considerazioni riportate, sono confluite in un libro I poveri, uscito negli Stati uniti nel 2007 e pubblicato da qualche giorno, per la prima volta in Italia, da minimum fax (traduzione di Cristiana Mennella, pp. 496, € 19,00). Al crocevia tra storia orale, ricerca antropologica, riflessione autobiografica, resoconto di viaggio e inchiesta giornalistica, il volume non sfigura accanto a capolavori letterari come Furore di John Steinbeck e Sia lode ora a uomini di fama di James Agee e Walker Evans – opera quest’ultima molto ammirata da Vollmann e di cui riprende, oltre alla struttura non lineare, anche la scelta di integrare il racconto con 128 istantanee in bianco e nero scattate da lui stesso.

Con il candore e la curiosità che contraddistinguono la sua scrittura, Vollmann ci invita a entrare nelle esistenze dei cosiddetti «invisibili», i «poveri» che tendiamo a conoscere esclusivamente attraverso le cifre divulgate dalle Nazioni Unite e che in queste pagine acquisiscono invece nomi, volti e specificità caratteriali.

Il rimando alle foto
Dice la mendicante russa Natalia, che la colpa della sua povertà va fatta risalire «a una zecca che la punse da bambina provocandole crisi epilettiche», o comunque al «brutto momento» in cui è nata. Oksana, la sua «rivale» ottantunenne che chiede l’elemosina di fronte alla cattedrale, incolpa il destino ma anche la propria inadeguatezza: «Forse a un certo punto abbiamo sbagliato qualcosa». Sua figlia Nina cita le patologie causate dalle radiazioni di Chernobyl, dove ha lavorato a lungo il marito; ma pur riconoscendo che «l’Unione Sovietica ha programmato le persone per farle vivere nella povertà e pensare che fosse normale», finisce per concordare sul fatto che «ci sono persone che pensano più veloce e altre che pensano più lentamente». E, naturalmente, «I più veloci fanno più soldi».

Oltre a riportare le loro opinioni in una prosa il più possibile scarna e diretta, Vollmann scopre che, al contrario della violenza – da lui analizzata in un saggio di sette volumi – la povertà non è mai eloquente, e per questo dedica I poveri agli interpreti che hanno reso possibili le interviste. Più volte la voce narrante rimanda alle fotografie delle persone incontrate, incoraggiandoci a scrutarne le varie espressioni per indovinare pensieri e atteggiamenti di ognuno, mentre lui stesso cerca via via di interpretare i sentimenti che gli vengono rivolti da coloro per i quali è al tempo stesso un benefattore e l’ennesimo sfruttatore.

Come spesso accade nei suoi romanzi, anche qui il narratore autobiografico di Vollmann è tra i personaggi più ambivalenti: scrittore affermato, reduce dalla vittoria del National Book Award per Europe Central, si definisce «un vero e proprio feticista dell’uguaglianza». Impegnato a risultare «simpatico» ai poveri, cerca di stabilire con chi incontra un rapporto basato su cortesia, rispetto e fiducia reciproca, ma il divario che inevitabilmente lo separa dai suoi intervistati non lo nasconde: «Io pagavo per quelle interviste», scrive, e con fredda autocritica, in una nota a piè pagina: «Quindi potevo essere invadente quanto volevo?».

In Giappone, Vollmann mette a rischio la propria incolumità quando, nel tentativo di ottenere informazioni di prima mano, bussa alla porta di un presunto boss dei terribili e misteriosi «Snakehead»; leggendo, prendiamo atto insieme a lui che proprio quel capitolo, la cui stesura gli è costata «dai cinque agli ottomila dollari, riesce ancora meno degli altri a raggiungere l’obiettivo minimo di una semplice descrizione», scivolando felicemente nella ricostruzione narrativa.

Più avanti, mentre racconta che alcuni dei senzatetto a cui ha permesso di stabilirsi nel parcheggio adiacente la sua abitazione di Sacramento, in California, hanno l’abitudine di defecare sui muri dell’edificio e hanno provato ripetutamente a entrargli in casa, Vollmann si scopre vittima degli stessi pregiudizi che il suo libro prova a eliminare. E non esita a confessarlo: «A volte ho paura dei poveri. Non sono affatto gli unici di cui ho avuto o potrei aver paura, né mi capita spesso di avere paura di loro: ciononostante la paura di quelli che definisco poveri mi definisce in parte come ricco».

Tra noi e gli altri
Nelle ultime pagine, l’amarezza del narratore giunge al suo bilancio: «Ho osservato le sofferenze degli esseri umani, ho compiuto qualche gesto per alleviarle e me le sono lasciate alle spalle». Ormai uomo maturo e per molti versi disilluso, Vollmann è un padre di famiglia che dopo aver incoraggiato la figlia a stringere la mano ai senzatetto accampati nel parcheggio la invita a lavarsela bene. Non è più il giovane scrittore che in Afghanistan Picture Show era convinto di poter «salvare il mondo» arruolandosi tra i Mujaheddin, né è più l’uomo che durante un viaggio in Thailandia aveva rapito una bambina-prostituta per poi «comprarla» ai propri genitori e garantirle un futuro migliore.

«Le ho pagato la scuola per un anno», scrive qui, nel capitolo intitolato «Io penso che sono poveri», ma lei «ha deciso di imparare a cucire, anziché a leggere. Avrei dovuto insistere perché studiasse?». Destinate a restare senza risposta, queste e altre domande ricordano che «qualunque sia la conoscenza della povertà racchiusa in questo libro, la loro sarà senz’altro più autentica, più profonda».

Allo scrittore non resta che la responsabilità di osservare e raccontare, sembra rassegnarsi a dire Vollmann, ribadendo come nell’esplorare le vite degli altri – specialmente quelle che crediamo più lontane dalla nostra esperienza quotidiana – la letteratura riesca sempre a svelarci qualcosa di noi stessi, perché in ultima analisi tutti noi, «poveri o ricchi, abbiamo in comune la nostra mortale irrilevanza».