Pirandello e Jannacci hanno lasciato il segno. Su Sam Garbarski, regista di origini tedesche normalmente operante in Belgio, in lingua francese, questa volta però in trasferta americana. Vijay, il mio amico indiano racconta infatti di Will, attore di origine crucca che si è ritagliato uno spazio professionale negli Stati Uniti. Purtroppo però non si tratta di Hollywood o di Broadway, tantomeno del prediletto Shakespeare: il suo successo deriva da un programma televisivo per bambini dove interpreta, mascherato, un coniglione verde. Sarà anche un idolo, ma non è che la cosa lo gratifichi poi molto, in fondo pochi sanno chi si celi dietro il Gabibbo e a nessuno è mai venuto in mente di considerarla un’interpretazione indimenticabile.

Così, il giorno del suo quarantesimo compleanno, l’amarezza raggiunge il culmine. Nessuno lo ha cercato, nessun amico, neppure la moglie o la figlia. Will è convinto che tutti lo abbiano dimenticato (in realtà gli stanno preparando un surprise party). Manda a gambe all’aria lo show, sale in macchina e parte, deciso a mollare tutto e tutti. Il destino ha però previsto altri scenari. Mentre se ne va, gli rubano l’auto, e il ladro, in seguito a un incidente, muore bruciato. Di lui rimane solo un irriconoscibile mucchietto di materia bruciacchiata che tutti credono sia Will. Che nel frattempo ha trovato ospitalità da un conoscente indiano e scopre quel che è successo dal notiziario tv. E qui arriva Pirandello, accompagnato da Jannacci. Will si camuffa da indiano con tanto di turbante e decide di assistere al proprio funerale, presentandosi ai (suoi) famigliari nei panni di Vijay Singh, amico del defunto.

Garbarski si è formato in pubblicità, poi ha firmato una delle commedie più spassose e imprevedibili degli ultimi anni, Irina Palm, andando a rispolverare una ormai giunonica e sempre arguta Marianne Faithfull. È abile inizialmente nel confezionare il suo racconto paradossale, lancia frecciatine al grande paese, giocando con le figurine del baseball, sentenziando sul ruolo delle banche e mescolando le carte dei diversi linguaggi. Inoltre, ha riscoperto Patricia Arquette proiettandola nel ruolo della moglie del protagonista, affidandosi poi anche a un’altra grande nonna come Hannah Schygulla, mentre Moritz Bleibtreu si accolla il compito di dare credibilità a Will, che all’anagrafe sarebbe Wilhelm Wilder, omaggio esplicito a un altro grande immigrato della commedia come Billy Wilder. Solo che si tratta di un compito insostenibile per chiunque. La trovata paradossale che prevede l’indianizzazione di Will è sostenuta troppo a lungo, mettendolo in situazioni che non reggono più il gioco. Ne risente tutto il racconto che perde mordente, oltretutto nessuno dei personaggi, con l’esclusione del vero indiano Rad (Danny Pudi), suscita un minimo di empatia e anche questo non giova al film che così funziona a sprazzi, alternando momenti più buffi a situazioni meno riuscite.