Quando ero giovane e lavoravo per gli altri, mi chiamavano “l’oreggiàt”, tanto bene scavavo e modellavo gli orecchi. Ne avrò fatti più di mille»: così Adolfo Wildt si raccontava, confidandosi a Ugo Ojetti nel 1926. C’è molta onestà in questa autorappresentazione: ammette il virtuosismo, che è abilità ma può essere anche trappola; ammette la serialità, che caratterizzerà sempre la sua vicenda artistica. Di Wildt negli ultimi tempi ci si sta occupando molto. La cosa un po’ può sorprendere, perché il gusto che esprime sembrerebbe molto lontano dalla sensibilità di oggi. È ben noto il debole che ha avuto per lui Francesco Maria Ricci, per via di quelle sue estenuazioni formali. Ma si trattava di un’attenzione sapientemente snob. Ora invece Wildt sembra aver conquistato l’attenzione di critica, pubblico e ovviamente del mercato, visto che in tre anni c’è stata prima la mostra di Forlì (2012), poi quella parigina al Musée d’Orsay (estate 2015), mostra che ora è approdata, in versione modificata, alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Che Wildt ritorni a Milano è cosa logica. A suo modo è stato un protagonista della vita della città di inizio Novecento, legato com’era in amicizia con Margherita Sarfatti, vera regista dei salotti artistici milanesi tra le due guerre. Ed è logico che torni a Villa Reale, nel cui piccolo, stupendo parco è conservata una delle sue opere più tormentate e controverse, il gruppo dei Beventi (1912). A differenza delle improbabili iperboli usate per lanciare la mostra forlivese (nel titolo lo si accostava a Michelangelo…), la mostra milanese si attiene a una ben più plausibile etichetta: L’ultimo simbolista. L’aggettivo «ultimo» si attaglia bene al profilo di Wildt: artista terminale in tanti sensi, compreso quello di essersi specializzato in monumenti funerari per le grandi famiglie milanesi e non solo. Wildt è «ultimo» anche rispetto a un mondo e a una città che attorno a lui accelerava in modo prepotente e a volte anche con un po’ di insolenza. I futuristi dettavano legge e stile, e il paragone tra i due ritratti alla Sarfatti, quello di Wildt stesso (1930) e quello di Boccioni (il celebre Antigrazioso del 1913) rende bene l’idea della forbice che si era aperta: da una parte il mondo circoscritto, centripeto dello scultore, dall’altra quello ansioso di modernità e internazionalismo del più grande esponente del Futurismo. «I francesi sono sbalorditi che da una piccola città di provincia come Milano sia venuta fuori una parola che li fa rimanere attoniti, loro così abituati a tutte le originalità più assurde», scriveva Boccioni da Parigi nel 1912. La parola in questione erano «gli stati d’animo» (riferimento alla sua celebre serie di quadri del 1911), ed era parola non estranea al lavoro di un personaggio ben più riservato e sedentario come Wildt. La sua scultura vive di esasperate contrazioni psichiche, con una vocazione però opposta al boccionismo: la materia, il marmo in particolare, implode su se stesso.
Lo stato d’animo wildtiano alla fine conosce poche varianti rispetto a una costante condizione di fondo, che è quella del «prigioniero». Wildt è una sorta di carcerato della scultura, incatenato al suo stesso virtuosismo che lo porta a esercizi sempre più spericolati, sino a sfiorare a volte la stravaganza. Quando se ne riesce liberare – ma non gli capita spesso – ottiene i risultati più alti: il misterioso busto di Martire (1895) della collezione di Massimo Minini e il malinconico, sognante Ritratto di Margherita Sarfatti (due opere posizionate all’inizio e alla fine della sua parabola) lasciano intendere cosa avrebbe potuto essere la storia di Wildt se avesse accettato la sfida di liberarsi dalle catene del suo virtuosismo e da un immaginario ossessivo e a volte oggettivamente scostante.
Ma le cose sono andate diversamente e Wildt alla fine è rimasto sempre «l’oreggiàt» che lui stesso aveva confessato di essere.
Davanti alle sue opere si può restare a nostra volta prigionieri, ostaggi dell’incantesimo di quella lavorazione spericolata, di quelle contorsioni del marmo; quasi risucchiati dentro voragini e feritoie che si aprono in una materia trasformata quasi in cartilagine. Giustamente Paola Zatti, curatrice della mostra milanese, ha scelto un altro approccio. E invece che isolare le opere, focalizzando così tutta l’attenzione sulle qualità da saltimbanco da marmo, le ha assemblate in montaggi che sanno quasi di allestimenti teatrali. Il dispositivo funziona alla perfezione in particolare nella seconda e nella quinta sala. Nella seconda è esposta, in una sorta di crescendo, la serie dei Vir temporis acti, soggetto su cui Wildt lavorò tra 1910 e 1921, con una lunga serie di repliche e varianti. Sono opere che vogliono narrare idealmente di un uomo antico, temprato dall’eroismo, dal dolore, ma che poi fanno i conti con la natura decadente della poetica di Wildt: per cui l’energia diventa contorsione, e la forza morale si trova a fare i conti con l’estenuazione dei capezzoli lavorati come petali di fiori…
Viste da sole queste opere risulterebbero schiacciate sotto il peso della retorica; articolate invece in un insieme teatrale, acquistano uno slancio melodrammatico, e lasciano trapelare anche un po’ di sospirata ironia. In questa sala gli «uomini antichi» si trovano inoltre a dialogare anche con il Prigione e con l’autoritratto intitolato Maschera del dolore, abbozzando quasi a un possibile copione che con un po’ di irrispettosità potremmo immaginare ambientato su un palco da Grand Guignol…
Ancora meglio le cose funzionano nella quinta sala, quella dei ritratti, tutti al maschile, tutti trasudanti la psicologia del fascismo. C’è il Mussolini di bronzo (non nella versione picconata dai partigiani alla fine della guerra); ci sono i Re Vittorio, l’Arturo Ferrarin, eroe dell’aeronautica, il Cesare Sarfatti, marito di Margherita, ripiegato su se stesso come una maschera di silicone. Si guardano tra di loro e si potrebbero immaginare dialoghi dal sapore tribunizio. Invece anche in questo caso sembra di assistere a una mess’in scena un po’ surreale, tra personaggi che si rivelano molto più patetici di quanto non si sospettasse. La protervia della retorica fascista poco s’addice a Wildt, che con un certo impaccio cerca di far impennare i suoi eroi, senza per fortuna riuscirci. E anche il duce, con lo squadernamento della sua mascella, alla fine sembra più una maschera felliniana che non un prepotente dittatore.
La mostra si chiude con una necessaria coda milanese: Wildt infatti fu seguitissimo professore a Brera e tra i suoi allievi ebbe, tra gli altri, Lucio Fontana e Fausto Melotti. I testimoni raccontano di come fosse serio l’apprendistato presso di lui: 18 ore settimanali, mai più di 10 allievi. Tutti chiamati a concepirsi, prima che artisti, operai del marmo. Del magistero di Wildt nei confronti di Fontana e Melotti si occupa in catalogo Luca Massimo Barbero, mentre in mostra la scelta, per i due, di opere del secondo dopoguerra rende ancor più esplicita una sensazione: che Fontana e Melotti nei confronti di Wildt agiscano per cancellazione. Melotti lo disse apertamente, pur con grande rispetto per il maestro: «Abbiamo avuto il nostro da fare per disfarcene il più possibile». Del resto la leggerezza che inseguì per tutta la sua vita suona come un atto di liberazione dalle catene del maestro. Quanto a Fontana, come aveva scritto Guido Ballo, aveva catturato da Wildt l’idea dei buchi, che lo scultore apriva sempre nelle orbite degli occhi. Ma i buchi di Wildt sono fori chiusi. Quelli di Fontana sono proiettili spaziali.