Il più bel festival rock di tutti i tempi compie mezzo secolo: è il 26 agosto 1970 quando viene inaugurato The Isle of Wight Festival che si protrae per altri quattro giorni, pomeriggi e serate memorabili, in cui si esibiscono all’incirca 250 musicisti. Per Wight non è una novità: l’isoletta britannica sulla Manica, ma vicinissima alla costa, a poche miglia da Southampton, Portsmouth e Brighton, comincia a ospitare già dal 1968 una prima kermesse, il 31 agosto e il primo settembre, con la contestataria psichedelia dei californiani Jefferson Airplane, seguiti dall’inglesissimo beat, rock e folk di Arthur Brown, Pretty Things, The Move, Ansley Dunbar, Fairport Convention, raccogliendo circa 10mila spettatori. L’anno dopo l’iniziativa si spalma su tre giorni (29, 30, 31 agosto) con 29 nomi famosi tra i quali Bob Dylan, The Band, Joe Cocker, The Who, Richie Havens, Nice, King Crimson, Pentangle, Third Ear Band.
L’effetto Woodstock tuttavia oscura in parte una kermesse già allora, ritenuta fondamentale, non solo per le 150mila presenze, ma soprattutto per il ritorno del futuro Premio Nobel in un festival, quattro anni dopo i fischi di Newport per via della svolta elettrica. Woodstock e Wight ‘69 comunque danno il la a una serie di iniziative per così dire globali, anche se ancora legate alle utopie del mondo hippie, così come generate nel 1967 dal Monterey Pop Festival e protrattesi simbolicamente fino al 1973 quando il 28 luglio i giovani sono ben 600mila (record ancora imbattuto) per ascoltare Grateful Dead, The Band, Allman Brothers Band all’autodromo di Watkin’s Glen (nello stato di New York), dove in autunno si disputa il Gran Premio di Formula 1: ma la cultura underground prende le distanze considerando la location del più ricco sport mondiale un simbolo del capitalismo e un’antitesi delle musiche alternative.
In mezzo, per un lustro, ci sono megaeventi collettivi – in particolare il 1970 ospita via via, per una sola edizione, Hollywood Music Festival nello Shaffordshire, The Kickapoo Creek Rock in Illinois, Schefner Music al Central Park newyorkese, Super Concert ‘70 a Berlino, Aachen Open Air Pop, Bath Festival of Blues & Progressive Music, Kralinger Music a Rotterdam, Phun City nel Sussex, Strawberry Fields in Ontario, Powder Ridge Rock nel Connecticut, Goose Lake International Music in Michigan, Man-Pop Festival a Winnipeg in Canada, Vortex 1 nell’Oregon. Ma è Wight a farsi ricordare pure oggi come la Woodstock europea grazie ad analogie e differenze che ancora coinvolgono studiosi e critici su un possibile «anno zero» dei festival rock, ovvero di una nuova musica divenuta fenomeno di massa interplanetario. Sempre nel 1970 sarebbero da ricordare analoghe iniziative in Italia, Finlandia, Jugoslavia, Cile, Giappone, persino Germania Est, usando il palcoscenico all’aperto come stile-di-vita e trovando altresì il modo di perpetuare la propria effimera identità nei replicanti mediatici dei film e dei dischi a esso dedicati.

I NUMERI
I numeri all’inizio sono più o meno gli stessi: 500mila giovani a Woodstock, forse 600mila in tutto a Wight (e non un milione come spesso qualcuno continua a riportare!), che resta comunque una grossa cifra, vista la location e visti i musicisti invitati (59 in Gran Bretagna contro i 38 degli Stati Uniti); per entrambi, pubblico ordinato e soddisfatto (forse più sulla collina vista mare di Anton Down che nelle fangose praterie di Bethel); un film documentario nelle sale e un album triplo nel giro di pochi mesi. Ma a questo punto gli esiti si divaricano: il copyright della pellicola e degli lp di Woodstock favorisce un exploit planetario di lunga durata, utile a sanare i debiti della «tre giorni». Il parziale flop del lungometraggio e dei vinili per Wight impongono un lungo stop alla manifestazione, che solo nel 2002 verrà ripresa,con ben altre motivazioni.
Tuttavia, al di là degli immancabili rischi gestionali, Wight ’70 resta un memorabile concentrato di grande musica, a lanciare nuove tendenze non solo nel rock, ma anche nel folk, nel blues, nel jazz. Sono otto i reduci woodstockiani: Joan Baez, The Who, Ten Years After, Richie Havens, John Sebastian, Melanie, Sly & Family Stone, Jimi Hendrix per la sua ultima memorabile performance. Ma il grosso e il bello di Wight è, senza dubbio, la presenza di alcune leggende viventi destinate a terminare o iniziare i loro percorsi: da un lato i Doors, assenti a Woodstock per l’agorafobia di Jim Morrison, con Wight firmano l’epilogo del quartetto assieme al vocalist, dall’altro Miles Davis ha l’occasione di farsi applaudire dalle folle giovanili, mostrandosi quarantenne creatore dell’innovativo jazzrock, di cui, sull’isola i Chicago offrono la versione «bianca», spettacolare, poppeggiante. Ma il clou artistico del festival è proprio la libera improvvisazione del settetto del trombettista nero, con due giovani alle tastiere, Keith Jarrett e Chick Corea, destinati a radioso avvenire, persino in altri territori musicali; la tromba milesiana quasi free è dunque avvolta da suoni elettrici accattivanti e ritmi binari insistiti, tra la gioia e lo stupore dei molti figli dei fiori convenuti.
Wight risulta altresì la conferma di una nuova ondata cantautorale dagli Stati Uniti (Kris Kristofferson, Tony Joe White, Shawn Phillips, Tiny Tim) al Canada della soave Joni Mitchell (qui contestata da un ragazzo che l’accusa di imborghesimento) e di un capelluto Leonard Cohen, poeta e romanziere, deciso ora a esprimersi con una voce appena sussurrata, una chitarra acustica e versi simbolisti di rara intelligenza letteraria. I folksinger locali sono invece rappresentati dal fresco revival dei Pentangle e di Ralph McTell e dal blasonato Donovan, il Dylan scozzese, quasi in procinto di intraprendere la svolta celtica. Un assaggio di tropicalismo è fornito da Gilberto Gil e Caetano Veloso, da anni esuli a Londra dopo il golpe fascista brasiliano.

ARRIVANO GLI INGLESI
Wight offre infine larghi spazi al nuovo rock «made in the UK» che, in quanto a originalità, sta ormai surclassando quello Usa appena un lustro dopo la british invasion beatlesiana, con almeno due nuove correnti. Da un lato infatti si può ascoltare l’hard rock, spesso venato di blues, con Taste, Free, Family, Cactus, Groundhogs, Pink Faires; dall’altro emergono almeno cinque gruppi che guardano al domani fino a imperversare per quasi tutti i Seventies: è il prog degli antesignani Moody Blues e dei neonati Supertramp e Hawkwind, passando dai già celebrati Jehtro Tull ed Emerson Lake & Palmer, protagonisti di happening sonori con fantasmagoriche improvvisazioni degne del miglior jazz.
Per fortuna a Wight c’è un regista, Murray Lerner (1927-2017), che filma tutto o quasi: già autore di un capolavoro, Festival (1967), pellicola in bianco e nero che antologizza i principali recital al Newport Folk tra il 1963 e il 1966, propone due ore di documentario a colori in The Isle of Wight Festival (1971) aggiornandolo nel 1995 al più completo Message to Love con una trentina fra band e solisti, per dedicarsi dal 2002 fino al 2018 (con due titoli postumi) a ben 10 monografie sulle performance integrali, sempre a Wight, via via di Who, Hendrix, Jethro Tull, Davis, ELP, Moody Blues, Cohen, Taste, Doors, Mitchell: nessun altro festival storicamente gode di una così magnanima documentazione audiovisiva. Cinquant’anni dopo continua il mito di un’isola celebrata anche dai nostrani Dik Dik e da quella Wight Is Wight del francese Michel Delpech con omaggi nel testo a Dylan (presente nell’edizione del ’’69) e a Donovan (in quella del ’70).