È ormai consolidata prassi attendere e accogliere con distaccato sarcasmo e sufficienza i nuovi album delle vecchie glorie del rock. Curioso, considerato che molti appartenenti alla categoria hanno pubblicato negli ultimi anni lavori che oscillano dal capolavoro al più che dignitoso. Da Blackstar di David Bowie, I’m new here di Gil Scott-Heron, Post Pop Depression di Iggy Pop nella prima categoria; Rolling Stones, Paul McCartney, Ray Davies dei Kinks, il non più giovane Paul Weller nella seconda.
LA TRAFILA 
C’era quindi la consueta attesa per il primo album degli Who, a tredici anni dal precedente (debole) Endess Wire. Intitolato semplicemente Who, preceduto dalla consueta trafila di dichiarazioni pepate di entrambi i componenti tra vecchie diatribe, sostegno alla Brexit di Daltrey e frecciate reciproche.
Il recente tour con orchestra non è stato esaltante, Townshend continua a sostenere che suonare dal vivo gli fa letteralmente schifo, i due hanno registrato le loro parti in studio separatamente, senza mai incontrarsi. Eppure, contro ogni aspettativa, anche in questo caso l’alchimia ancora funziona. La copertina di Peter Blake corona al meglio il contenuto. Un condensato di radici e tradizioni tipicamente Who, tra richiami agli anni Sessanta, sapienti e palesi riferimenti ai suoni sintetici vintage che caratterizzavano capolavori come Who’s Next e Quadrophenia ma che hanno un profilo attuale, paradossalmente fresco e mod-erno, un’energia (probabilmente costruita ad hoc grazie alle nuove tecnologie, ma poco ci importa) spontanea, vera, sincera.

La copertina del nuovo album firmata dal noto pop artist britannico Peter Blake

Alla fine, sorpresa! Ecco un album semplicemente bello, duro, ancora graffiante, in grado di trasmettere sensazioni, vibrazioni e soddisfazione. E che prosegue (chiude?) quel lungo percorso intellettuale che Townshend porta avanti da oltre 50 anni, con testi mai banali, sempre pungenti, fastidiosi che non si preoccupano di disturbare. Anzi, vanno a scavare nel profondo di un’anima tormentata come la sua, che da sempre cerca risposte, soluzioni, prospettive. E più scava, più apre nuove strade, ferite, cicatrici. Ma, ribadisce spietatamente nella autobiografica I Don’t Wanna Get Wise che «tutta la merda che abbiamo fatto/ci ha portato tanti soldi/e quei ragazzini arroganti sono diventati un successo permanente» e «come la vita ci insegna non voglio diventare saggio». Che è un (inconsapevole?) rimando al famoso verso «I hope I die before I get old» che nel 1965 lanciò provocatoriamente ma altrettanto spontaneamente gli Who nell’olimpo del rock con il pezzo My Generation. Il metaforico «spero di morire prima di diventare vecchio» lo ha perseguitato per tutta la vita. Ora in qualche modo risponde con la constatazione che «vecchio» è uno stato d’animo, una condizione mentale che oltrepassa quella, inevitabilmente caduca, del fisico.
Pete Townshend ha trascinato con i suoi testi gli Who in un dirupo di contraddizioni, di esplosioni emozionali, di spessore letterario che ha pochi eguali nella storia del rock. Ha interpretato le passioni, le istanze, le rivolte ormonali adolescenziali. A partire da Can’t Explain, dove racconta di quel sentimento che forse è amore, ma che a quell’età non riesci a spiegare.
PREGIUDIZI E AMORI
Ma parla di pregiudizi razziali in Substitute, di autoerotismo in Pictures of Lily e Mary Anne with the Shaky Hands (praticato da una ragazza che ci sa fare con le mani), di amore frustrante e frustrato in Our Love Was, di divorzio e abbandono consapevole delle responsabilità di coppia nella cruda A Legal Matter, di infedeltà in A Quick One. Siamo a metà degli anni ’60, quando in Inghilterra il comune senso del pudore è ancora ben ancorato a regole vittoriane e solo in circoli ristretti si incomincia a intravedere un affrancamento libertario. Gli Who sono rumorosi, arroganti, aggressivi, sgraziati, sgradevoli, rompono gli strumenti e sono poco inclini all’inchino beatlesiano o al sorriso. In più condiscono i testi di riferimenti quanto più lontani possibile dall’accondiscenza.
Ma Townshend si spinge ancora più in là nella sua esplorazione dell’animo umano, scavando nell’incomunicabilità, nell’abuso dell’innocenza, nella disabilità psicologica, nella violenza estrema che permea un’opera iconica come Tommy. Il preludio al successo mondiale (suffragato dall’indimenticabile esibizione a Woodstock, immortalata al meglio nell’omonimo film).
Gli Who, tra debiti, eccessi, follie, droghe, decollano, diventano grandi, adulti ma non saggi. Townshend scava ancora e concepisce Lifehouse, una nuova opera rock talmente complicata che non basteranno decine di incontri con il resto della band, manager e discografici per farla comprendere. In estrema sintesi anticipa di anni e anni il concetto del web, della correlazione inevitabile tra le persone. Tenta di ratificare le connessioni che ci possono essere tra la musica, la nota pura e semplice (il brano Pure and Easy e la sensibilità dell’ascoltatore che diventa tutt’uno con chi quella nota la produce. Troppo complesso. Il rock è ancora giovane, anzi in piena esplosione (anche in questo caso ormonale) e ha bisogno dei suoi idoli da sacrificare sui palchi. Gli Who sono nei primi anni ’70 al massimo della salute.
DALLE CENERI
Roger Daltrey è diventato un sex symbol, la band suona come nessun altro (rimanendo ineguagliata nella storia del rock), i concerti sono devastanti. Dalle ceneri di Lifehouse nasce il ripiego Who’s next, con estratti dall’opera, che diventa uno degli album più apprezzati della storia, grazie al connubio di quella potenza sonora e di sofisticate tecniche di registrazione e dell’introduzione della musica elettronica. Townhend nel singolo The Seeker palesa la sua missione: «Ho cercato dappertutto/Non riuscirò a ottenere ciò che cerco/Fino al giorno in cui morirò… sono uno che cerca, un uomo veramente disperato». Con Quadrophenia chiude in qualche modo, consapevolmente o meno, la saga adolescenziale.
Il protagonista della storia si trova a fare i conti, suo malgrado, con l’età adulta, quando ormai l’appartenenza alla subcultura mod e alle sue regole non basta più. Quella patina superficiale viene spazzata via dalla vita reale e non rimane che gettare metaforicamente la Vespa dalla scogliera e risalire la china (come ben esemplificato dal film del 1979 di Frank Roddam).
Una china che invece Townshend e soci (con l’eccezione del salutista Daltrey) hanno già iniziato a percorrere. L’incerto Who by Numbers è un florilegio di brani che testimoniano la profonda crisi di Townshend, tristemente espressa in However much I Booze («Mi vedo in tv, sono un impostore, un pagliaccio di cartone»), i concerti non brillano ma diventano sempre più confusionari per via delle tendenze alcoliche della band.
UN TENTATIVO
Who Are You nel 1978 si porta via anche Keith Moon, ucciso poco dopo dai continui abusi. Ne seguirà un tentativo di ripartire con l’ex Small Faces Kenney Jones alla batteria ma con risultati sempre più deludenti.
Townshend finisce nell’eroina e nell’alcolismo, il suo album solista Empty Glass è un triste ritratto di questa precaria condizione psico fisica, nonostante l’altissima qualità dei brani. Seguiranno scioglimenti, lunghi silenzi, lo stillicidio delle reciproche polemiche via stampa, reunion trionfali ben remunerate, la tragica scomparsa anche di John Entwistle. Il nuovo album sembra voler chiudere il cerchio, un commiato degno della loro grandezza e della complessità di un’esperienza unica, che fa brillare ancora una volta la stella prima della fine, ormai prossima e annunciata. Una band che ha rappresentato al meglio le infinite sfaccettature del rock che è diventato cultura e elemento di riferimento nella società odierna.
Rockin’ in Rage dal recente album ci lancia un ultimo messaggio: «Tremando di rabbia, non lascerò il palco, perché sto tremando di rabbia con il mio cuore in una gabbia».