A leggere i saggi pubblicati dalle due curatrici, Jane Panetta e Rujeko Hockley, nel catalogo dell’ultima biennale del Whitney Museum – un volume edito in elegante veste tipografica con copertine di vari colori, fra cui un viola luttuoso oltre al grigio, al verde e all’arancio – appare chiaro come, nel comporre la selezione per il percorso della rassegna, aperta fino al 22 settembre, ci si sia sentiti chiamati a fronteggiare una situazione di emergenza.
Preposta al compito autorevole di organizzare la più ‘patriottica’ fra le mostre della stagione newyorkese – laddove col termine patriottico si intenda l’esigenza prioritaria di offrire l’immagine efficace di una nazione, secondo un interesse avviatosi con la serie stessa delle Biennali nel lontano 1932 – la coppia di studiose si è trovata a interrogare la difficile vita politica e sociale di un paese che è «less and less even aspirationally a unified entity with shared interests and goals».
Nella «hypergentrification»
Consapevoli di come ogni tempo detti la propria agenda nelle forme di un inedito allarme, sia la Panetta che la Hockley hanno in questo senso voluto ricondurre il loro lavoro al contesto di una catena più lunga di crisi ed esposizioni, lette in un univoco rapporto generativo; tuttavia l’era del trumpismo trionfante (l’avvio della nuova presidenza ha di fatto coinciso con la fase progettuale della manifestazione e con quella del suo allestimento) si costituisce, a loro giudizio, come un’epoca-cerniera in cui conflitti annosi attorno ai temi della razza e del genere sessuale sono stati proiettati sullo sfondo di una «hypergentrification» in grado di mutare il volto degli U.S.A., in concorrenza con il «continued fallout» della crisi finanziaria del 2008 e con la figura di una guida «unprecedentedly volatile», incarnata con schizofrenica vivacità dall’eterodossa esuberanza del tycoon repubblicano.
Una tempesta perfetta di portata tanto devastante impone dunque – per proporre un panorama rappresentativo del frangente attraversato dall’America a partire dal 2017 – di concentrarsi soprattutto sulle ‘urgenze’ suscitate da un clima siffatto, sostenuto in particolare dall’uso spregiudicato di un discriminante odio identitario e da un rapporto opportunistico, fraudolento con il dato di realtà. Non a caso le due curatrici rimandano in maniera esplicita a una prassi creativa declinata nel rispetto di una «strategy for survival», confermando la fuga inequivoca da qualsivoglia autonomizzazione del dato estetico legata alle imperscrutabili regole della ‘forma’ o alle ondivaghe promozioni del canone museale. Tale resilienza è simbolizzata dall’oggettualità stessa dell’opera, dalla capacità di ciascun lavoro di inserirsi in una struttura dialogica in virtù della propria porosa circoscrizione. È cioè l’idea di ‘presenza’ – invocata in premessa sotto agli auspici di un «claim to the current moment» – a offrire un’arma efficace per la rivolta, servendo da una parte come base indispensabile per un’audace testimonianza, contraria al principio di dissoluzione della memoria e della storia, e introducendo dall’altra un indice ostinato di verità, resistente alla corruzione interpretativa imposta dai meccanismi smaterializzanti delle narrazioni ‘digitali’.
Pratica artistica, evidenza opaca
Nel quadro delle riflessioni critiche condotte in catalogo, una simile prerogativa si smarca del resto dal sospetto di superficialità o da quello, non meno pericoloso, di schematismo propagandistico. Di fronte all’oppositiva polarizzazione, rigida e superficiale, favorita dal tam tam politico, ipocritamente giustificato con esigenze di intellegibilità, la pratica artistica deve infatti puntare a un’evidenza ambigua e opaca, radicata nel vissuto polifonico di un individuo o in quello di una comunità di riferimento.
La disamina della Panetta e della Hockley trova così una coerente collocazione nelle loro pregresse esperienze biografiche e curatoriali, incardinandosi a un tempo alla recente programmazione del Whitney. La prima per l’appunto, dopo il trasferimento del museo da Madison Avenue al Meatpacking District nel 2015, si è occupata dell’inaugurale presentazione delle raccolte permanenti sotto al titolo di America is hard to see, un’acuta indagine sul valore plurivoco dell’etichetta ‘statunitense’ nei riguardi della produzione artistica nord continentale; la seconda ha invece preso parte all’ideazione di Incomplete History of Protest, 1940–2017, esposizione aperta due estati fa attraverso la quale il Whitney ha inteso riflettere sul ruolo giocato dalla propria direzione in passaggi topici per la storia della contestazione novecentesca (dalla guerra in Vietnam agli anni della pandemia dell’AIDS). Inoltre, se la Panetta viene da un background ‘istituzionalissimo’ (ha per cinque anni rivestito il ruolo di assistant curator al MoMA, prima del 2010), la Hockley è passata attraverso un curriculum meno lineare, debuttando in una struttura dinamica come lo Studio Museum di Harlem: circostanza questa che si riverbera nel bisogno di mantenere per l’esposizione corrente un inevitabile focus su New York, intraprendendo però un dialogo con strutture giovani, attive nel paese anche al di là degli assi costieri est-ovest, quali ad esempio il Joan Mitchell Center di New Orleans o il Beta-Local di San Juan sull’isola di Porto Rico.
D’altra parte una palese pietra di paragone per la biennale odierna è il precedente rappresentato dall’edizione del 1993, analogamente concepita da un team al femminile (ad esclusione di John G. Hanhardt), e cioè dal gruppo comprendente i nomi di Elisabeth Sussman, Thelma Golden e Lisa Phillips.
Questo appuntamento – passato alle cronache per gli sguardi rivolti ai contemporanei nodi politici e sociali nelle proposte di artisti come Nan Goldin, Glenn Ligon, Spike Lee o dei meno noti Pepón Osorio e Zoe Leonard – venne accolto da un ampio dibattito mezzo stampa, per lo più polemico, rivolto a sottolineare l’attenzione ‘contenutistica’ perseguita nel comporre il ricco portfolio sottoposto al giudizio del pubblico; la stessa Sussman poteva d’altronde dichiarare quanto le diverse opzioni mirassero a ritrarre la vita dei cittadini statunitensi piuttosto che le istanze del mercato artistico di quel momento.
Chow, Gibson, Jackson, Michie…
Il percorso di allora si apriva, in maniera significativa, con un foto-murale di Pat Ward Williams, What you lookn at?, raffigurante cinque giovani afro-americani inquadrati in un enigmatico scatto di gruppo; quello attuale – raccogliendo i disegni di Milano Chow, gli acrilici di Jeffrey Gibson, i collages di Tomashi Jackson e di Troy Michie, i footages di Sofía Gallisá Muriente, l’istallazione di Agustina Woodgate in spazi liberati dal concetto di sala monografica – ha fra i suoi punti focali, come introibo imponente per uno dei piani della mostra, National Anthem di Kota Ezawa, animazione che descrive in forme sintetiche la protesta sostenuta da molti giocatori della National Football League, inginocchiati durante l’inno a inizio partita in reazione alle violenze della polizia nei confronti della popolazione di colore (e in risposta alla dura reprimenda espressa dal presidente Trump contro questa pacifica forma di protesta, avviata nel 2016 da Colin Kaepernick). Si tratta di scelte che, assecondando dispositivi retorici difformi, si rispecchiano tuttavia l’una nell’altra, nel desiderio di evidenziare un legame diretto con le contraddizioni del presente: un percorso di continuità volto a riconfigurare l’esperienza della Biennale come termometro della salute della nazione, microscopio puntato sui gangli di sofferenza disseminati lungo il corpo immenso di un paese vastissimo, da sempre innervato di tensioni profonde e impulsi contrastanti.