«Werther», acuti e doppie prospettive
Lirica In cartellone fino al 2 luglio il capolavoro di Massenet sotto la direzione energica e altisonante di Alain Altinoglu
Lirica In cartellone fino al 2 luglio il capolavoro di Massenet sotto la direzione energica e altisonante di Alain Altinoglu
Quando Jules Massenet compone Werther, dramma lirico che debutta nel 1892, la sua è un’operazione che il coevo Friedrich Nietzsche definirebbe «inattuale». Adattando I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe in piena epoca positivista e naturalista/verista (Verga ha pubblicato Mastro-don Gesualdo nel 1889, il ciclo dei Rougon-Macquart di Zola si conclude nel 1893), il compositore riattualizza in chiave decadente l’irrazionalismo preromantico, che ora come allora trova la sua massima (e massimamente perigliosa) declinazione nella rappresentazione del suicidio del protagonista. Le storie dell’opera ci dicono che Werther, oltre a essere uno dei capolavori di Massenet, è anche uno dei massimi esempi di «drame lyrique», variante francese del «musikdrama» wagneriano, che sfuma i contorni tra i singoli numeri musicali a favore della continuità drammaturgica, si serve dei leitmotiv in funzione architettonica e ripudia il belcanto italiano. Se alla lettura pedissequa delle storie si preferisce l’analisi diretta della partitura però si scopre che le due coppie di arie di Werther e Charlotte e i loro due duetti sono le colonne ben scolpite su cui poggia l’opera e che i leitmotiv sono più atmosferici ed evocativi che narrativo-drammatici.
L’ALLESTIMENTO di Werther in scena in questi giorni al Teatro alla Scala (fino al 2 luglio), dove l’opera mancava da ben 43 anni, grazie alla direzione energica e altisonante di Alain Altinoglu rovescia la prospettiva mostrandoci non solo la vicinanza tra la presunta vocalità «francese» di Massenet, sfumata e introspettiva, e quella «tedesca» di Wagner, voluminosa ed eroica, ma anche le similitudini nell’architettura e nello stile musicale con Cavalleria rusticana (1890) di Mascagni e nella drammaturgia dell’amore contrastato ma inestinguibile con Don Carlos di Verdi (che debuttò a Parigi nel 1867). Dà un contributo fondamentale al tentativo del direttore di esplicitare le tensioni eroico-veriste della partitura la magnifica interpretazione di Benjamin Bernheim, che modella un Werther stentoreo, baldanzoso, un giovane pieno di vitalità e amore che si trova sottratta la speranza di sfogarli e compierli e che sceglie di morire piuttosto che sopravvivere al matrimonio imposto di Charlotte, interpretata con altrettanta intensità da Victoria Karkacheva. Convincenti anche l’Albert di Jean Sébastien Bou e la Sophie di Francesca Pia Vitale. Efficace la regia di Christof Loy.
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