Lo stato sociale in Italia è un mantello di Arlecchino pieno di rattoppi contrastanti creati da un sarto che lavora sulla base di iniziative politiche improvvisate ed estemporanee per proteggere le rendite di posizione e tutelare parzialmente questo gruppo o quella corporazione. L’ultimo esempio di questo sviluppo senza un disegno universale lo abbiamo visto nel primo anno della pandemia del Covid. Invece di estendere senza condizioni né vincoli il già problematico «reddito di cittadinanza», una politica del lavoro gratuito e della formazione forzata ancora non operativa, il governo «Conte 2» ha preferito elargire una pioggia di miliardi in bonus categoriali, temporanei e occasionali e ha creato un «reddito di emergenza» che impedisce l’accesso alla misura principale. Questa panoplia di misure non ha evitato l’aumento di un milione di poveri solo nel 2020, in particolare tra quelli che lavorano, oltre che tra i migranti residenti esclusi nei fatti dal beneficio del «reddito di cittadinanza» sul quale pesa anche una discriminante razzista imposta dalla Lega e accolta dai Cinque Stelle.

Le ragioni che hanno portato a quest’ultimo fallimento possono essere comprese leggendo il libro di Chiara Giorgi e Ilaria Pavan: Storia dello Stato sociale in Italia (Il Mulino, pp. 503, euro 32). Si tratta di un’immersione nel «secolo breve» del Welfare senza riforme sociali organiche e prospettiche, tranne quelle degli anni Settanta ottenute da una straordinaria, commovente e duratura mobilitazione decennale che ha portato al servizio sanitario nazionale, allo statuto dei lavoratori, alle case pubbliche e all’equo canone, si servizi sociali territoriali, all’aborto e al divorzio, alla democrazia nelle scuole. Un momento aureo in una storia che continuerà ad essere tormentata e conflittuale.

IL DOCUMENTATISSIMO racconto di Giorgi e Pavan si snoda lungo un settantennio che inizia tra la fine della prima guerra mondiale e il fascismo, quando si è formato il nucleo corporativo, segmentato e caotico dello stato sociale all’italiana, e termina negli anni Novanta del XX secolo quando lo stato sociale è stato rimodulato dai partiti dell’arco costituzionale. «Destra» e «sinistra», populisti e centristi moderati: sono gli attori di un’unica razionalità neoliberale. Negli ultimi trent’anni hanno impresso una torsione aziendalista a un modello che mantiene una continuità con quello precedente. Da un lato, hanno pianificato le dismissioni, i tagli, la sussidiarietà a favore del privato sociale e di un regionalismo differenziato iniquo e concorrenziale. Dall’altro lato, hanno consolidato i tratti occupazionali di un Welfare ispirato a una legge feroce: se hai un lavoro (dipendente) allora hai una tutela residuale, ma se non lo hai puoi solo sperare che qualche politico si ricordi della tua categoria e faccia approvare un bonus personalizzato. Questa versione clientelare e opportunista del Welfare non è una novità nella storia italiana, ma è diventata la norma con la quale il sistema ha affrontato fino ad oggi le non univoche né generali rivendicazioni emerse durante la trasformazione postfordista della società che ha modificato e precarizzato la base sociale del lavoro autonomo e subordinato, moltiplicando gli esclusi dall’impostazione lavorista e selettiva del Welfare del Secondo dopoguerra.

Dopo la riforma del titolo quinto della Costituzione, un’altra sciagurata trovata del «centrosinistra» nel 2001, questa impostazione ha acuito i problemi nella sanità e nel Welfare che era, e resta, uno dei più arretrati, ingiusti e discriminanti in Europa. Il suo sviluppo è affidato a una logica incrementale guidata dagli interessi elettorali o alle emergenze economiche e sociali che hanno spinto alla costruzione di un sistema tutt’altro che egualitario e redistributivo. Retaggio di culture imbevute di familismo e maschilismo che confondono i diritti fondamentali con l’assistenza caritatevole, questo sistema mantiene lo status acquisito sul mercato dagli individui proprietari che possiedono una rendita decrescente, non la liberazione dal bisogno che ispirò anche chi scrisse la Costituzione.

QUESTO LIBRO non offre solo una chiave di lettura del presente, ma è un implicito invito all’organizzazione. Il welfare resta pur sempre il risultato di un compromesso con il capitalismo. Ma persino questo risultato, parziale e instabile, non è lontanamente immaginabile senza la lotta politica, la condivisione dei saperi critici, la creazione di sperimentazioni locali, nazionali sovranazionali. Lo «Stato sociale» non è solo una politica pubblica, economica o amministrativa. Queste procedure sono, a loro volta, oggetto di conflitti e negoziazioni, parti di una politica più ampia che non è limitabile alla creazione delle condizioni che rendono produttiva una forza lavoro.

Giorgi e Pavan ci consegnano un’intuizione formidabile. Il loro libro sembra ispirato da un’intervista di Michel Foucault sulle lotte contro le istituzioni totali nella sanità. Per questo definiscono il Welfare come un «sistema finito» che affronta la «domanda infinita» di una giustizia sociale che supera i limiti della cittadinanza. Lo Stato non è in grado di soddisfare una serie di richieste sul diritto alla vita, alla salute, alla felicità. Ma quando lo fa, è trasformato dai governati che impongono alle loro rappresentanze un altro governo in nome dell’utilità generale, non in quella ispirata alla sintesi degli interessi specifici. Uno stato sociale non si misura solo nei termini dei servizi offerti, nel rispetto delle procedure e nella loro trasparenza, nella moralità e nell’efficienza della burocrazia, ma nella capacità di socializzare le tutele e universalizzare il diritto di esistenza, indipendentemente dall’obbligo di lavorare per sopravvivere

Lo scopo di uno Stato sociale non è solo l’assicurazione e la protezione dalla disoccupazione e dalla malattia, ma la creazione delle condizioni che accrescono la potenza comune in tutto quello che si può essere, fare e pensare insieme. Questa politica della giustizia si è esplicata pienamente negli anni Settanta. Nelle pagine più belle del volume Giorgi e Pavan spiegano come, da un lato, abbia provato a de-istituzionalizzare istituzioni totali come il manicomio, l’ospedale o il carcere; dall’altro lato abbia inventato nuove istituzioni, iniziando la trasformazione dei rapporti di potere tra medici e pazienti, cittadini e Stato, classi e capitale. I ritratti di Giulio Maccacaro, e sullo sfondo quello di Franco Basaglia, contenuti nel libro spiegano più di mille teorie la forza che può assumere un riformismo radicale e di massa che parla con le lotte sul lavoro e nella società.

SE NON ESISTE uno stato sociale, o se è malfunzionante ingiusto e irrazionale, allora si vive peggio. Ma se la domanda «infinita» di un cambiamento è latente, allora il Welfare resta l’amministratore di benefici particolaristici nell’esclusione sociale generalizzata. È in questa situazione che ci troviamo oggi, sospesi tra l’evocazione di una nuova sanità territoriale e nuovi ammortizzatori sociali «universali» in un sistema destinato ad essere gestito nello stesso modo. L’assenza di questi temi nel dibattito sul «Recovery fund» europeo, e l’intenzione di gestire la scuola come l’anticamera dell’impresa, assicurano la riproduzione delle diseguaglianze. Complice il congelamento imposto dalla pandemia, le lotte per una giustizia sociale sembrano restare ferme al mondo di ieri: frammentate per categorie, infeudate nel particolarismo, separate nella divisione sociale del lavoro. La democratizzazione dei rapporti sociali e di produzione, la domanda di servizi collettivi, decentrati e uguali contro la logica del mercato, la rivendicazione di un reddito di base e la critica della struttura familistica del Welfare iniziano dalla lotta contro ciò che siamo diventati e rischiamo di restare nella prossima crisi.