Succede, a volte, che l’incontro tra due personalità forti conduca prima a risultati comuni di enorme valore artistico, sociale, umano, destinati a segnare un’epoca, e poi ad altrettanto forti polarizzazioni individuali, a dicotomie successive non più negoziabili. Nel mondo delle note popular contemporanee si pensi ad esempio alla drastica rottura e incomunicabilità tra Roger Waters e David Gilmour dei Pink Floyd. Nell’avventura splendida e fumigante della tedesca Repubblica di Weimar, quel coacervo di contraddizioni vitali tra il 1919 e il 1933 che significò la fine dell’asfissiante cappa militarista del Kaiser Guglielmo II, la tragedia degli spartachisti di Rosa Luxemburg, ma anche l’avvento del Bauhaus, della satira, della nuova oggettività, il binomio creativo tra il musicista Kurt Weill e lo scrittore Bertolt Brecht fu la scaturigine di un incendio artistico che avrebbe rivoluzionato il teatro, e il teatro musicale in particolare. Un secolo dopo, o quasi, siamo ancora eredi di quell’esperienza. Che ce ne rendiamo conto o meno. La collaborazione tra Kurt Weill e Brecht durò dal 1927 al 1933, quando gli orchi di Hitler si presero la Germania, e ambedue gli artisti, uno ebreo, l’altro comunista, dovettero espatriare: prima vagando per l’Europa, poi negli Stati Uniti, dove Weill trovò una seconda patria, e Brecht, invece, dovette ancora una volta fare le valigie per scampare al maccartismo anticomunista, riparando nella Germania dell’Est. L’ultimo lavoro assieme, del 1933, è un «balletto cantato» con coro e piccola orchestra presentato a Parigi nel ’33, I sette peccati capitali dei piccolo borghesi, periodicamente riscoperto anche in Italia: la prima volta nel ‘61 con Laura Betti e Carla Fracci in scena, Luigi Squarzina alla regia, Bruno Maderna alla direzione d’orchestra. Alla storia complessa e variegata di quei testi e di quelle musiche dedica I sette peccati capitali in jazz (De Ferrari editore) la vocalist, docente e ricercatrice Renata Ghiso, tra i massimi esperti del «canto epico» nel teatro brechtiano, cui ha già dedicato altri scritti. Il testo offre una disamina completa dell’ultima collaborazione, e delle vicende delle successive riedizioni. Un cd accluso ripercorre in otto tracce – e in italiano – i brani originali, riarrangiati magistralmente da Alberto Bellavia. Un itinerario «asciugato» che sfiora e cita molte tappe estetiche del jazz, dalle origini alla New Thing, senza snaturare la forza particolare degli originali.