«No, no», New York non è come Ferguson, scuotevano la testa convinti due poliziotti nel parco di Washington Square, l’altra notte. In lontananza, le sirene delle volanti che convogliavano verso le manifestazioni in corso in varie zone di Manhattan sembravano però raccontare un’altra storia.

Si è tenuto ieri il servizio funebre di Akai Gurley, il ventottenne afroamericano ucciso “per errore” da una recluta bianca mentre scendeva le scale di una casa popolare di Brooklyn. E, a meno di due giorni dalla notizia che un Gran Jurì di Staten Island ha deciso di non incriminare l’agente che, con una mossa di sottomissione bandita dalla polizia locale, ha provocato la morte di un altro afroamericano (padre di famiglia, quarantatreenne, disarmato) sospettato di vendere illegalmente sigarette, le proteste continuano. Giovedì notte erano almeno tremila le persone che manifestavano per le strade della città, divise in gruppi, spesso coreografati in sit-in tesi a bloccare il traffico. Oltre 230 gli arresti confermati. Agli slogan di “No justice, no peace no racist police” e “hands up don’t shoot” coniati a Ferguson, si è aggiunto “I can’t breath”, non riesco a respirare, la frase che Eric Garner è riuscito a ripetere ben undici volte prima di mancare, il braccio di un poliziotto stretto intorno al collo e il torace compresso sull’asfalto dal peso dei suoi colleghi. Nemmeno un video che documenta per intero la scena agghiacciante ha convinto i giurati a chiedere un processo per l’agente Daniel Pantaleo (quello che lo stava strozzando – agli altri era già stata data l’immunità). Registrando la trasmissione poco dopo l’annuncio della decisione del Gran Jurì, il conduttore del “Daily Show” Jon Stewart ha condensato la sua reazione alzando le braccia al cielo e gridando “fuck” più volte. We can’t breath, non possiamo respirare era il titolo di prima del tabloid “Daily News”, anche quello espressione adeguata di una città che comincia veramente a sentirsi ostaggio del potere della sua forza dell’ordine.
La reazione di sgomento e disgusto esplosa con il verdetto Garner è in effetti fortissima. Non è un caso che le manifestazioni, pur rimanendo pacifiche (New York non è Ferguson…) stiano evolvendosi sempre di più, da semplici marce a gesti organizzati di disobbedienza civile.

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Duro contro la decisione del Gran Jurì anche il New York Times, che nell’editoriale di ieri analizzava come l’azione di polizia contro Garner sia stata irregolare ben aldilà del gesto di Pantaleo. Persino la diplomatica senatrice Kristen Gillibrand si è lasciata scappare dei dubbi.

Il sindaco democratico, Bill De Blasio, eletto grazie all’appoggio delle minoranze esauste dagli abusi di un Nypd iperattivista e troppo impunito, ma anche in cambio della promessa a Wall Street che la città non avrebbe fatto passi indietro sulla “sicurezza” e la “qualità della vita”, naviga in acque difficili. In un sensato tentativo di empatia con la reazione di protesta (ed evocando l’affermazione di Barack Obama: “se avessi un figlio avrebbe l’aspetto di Trayvon Martin”), De Blasio ha raccontato di aver insegnato a suo figlio Dante (di madre afroamericana), che doveva stare super attento alle sue interazioni con gli uomini in blu. Gli sono volati addosso non solo la lobby del Nypd, che lo ha accusato di slealtà nei confronti del Dipartimento, ma anche l’ex sindaco Rudolph Giuliani, responsabile di gran parte delle misure che hanno avvelenato il rapporto tra i cittadini di New York e il corpo che dovrebbe proteggerli. Intervistato su Fox News, Giuliani ha definito i commenti di De Blasio controproducenti e “razzisti”.

In realtà, fino alle proteste finalmente scoppiate in questi giorni, l’atteggiamento del municipio nei confronti degli omicidi di Eric Garner e Akay Gurley è stato caratterizzato da uno slalom tra il timido e l’assenteista. Un vuoto, questo, faciltato dall’imbarazzato silenzio di un’opinione pubblica benestante, e a stragrande maggioranza democratica, che non vuole indebolire De Blasio; e forse anche dalla presenza di una First Lady afroamericana della città, influente presso la leadership della comunità black.

Giovedì, il sindaco e il suo capo della polizia, William Bratton, hanno annunciato dei nuovi regimi di addestramento dei poliziotti. Ma è evidente che, fino ad ora, la riforma del Nypd congiuntamente promessa da De Blasio e Bratton all’inizio del mandato non c’è stata.

Di fronte a un fallimento dell’istituzione così palese, incarnato, non solo dal comportamento degli agenti “sul campo”, ma dal sodalizio di ferro tra Nypd e procuratori riflesso ancora una volta dall’inspiegabile verdetto sull’omicidio Garner, c’è da chiedersi come mai, nessuno – nemmeno il reverendo Al Sharpton – abbia sollevato l’ipotesi di chiedere le dimissioni del capo della polizia. Se al posto di De Blasio ci fosse stato Giuliani chissà se non avremmo cercato di metterlo più alle strette, se non saremmo scesi in strada prima.

Il disagio posto da questo interrogativo serpeggiava nell’aria mentre, nelle scorse settimane, dal Nord Est liberal guardavamo il Sud razzista che perdonava Darren Wilson. No, New York non è Ferguson – ma Ferguson è anche qui.