In Datacrazia (D Editore), Andrea Signorelli ci racconta di come algoritmi predittivi di intelligenze artificiali ipermoderne usino miliardi e miliardi di dati per analizzare, studiare e, appunto, predire il comportamento degli individui, con l’obiettivo di anticiparne crimini e devianze sociali. Eppure questi dati vengono prima raccolti, poi gestiti, smistati, categorizzati e distribuiti da centri di controllo con interessi squisitamente umani, fallaci quanto basta da trasferire i loro bias sulle macchine teoricamente «neutrali» che intendono usare. Da questa ipotetica distopia del futuro dal gusto di immediato presente nasce la serie di Watch Dogs, oramai giunta al suo terzo capitolo e che di episodio in episodio ha cambiato molte delle sue caratteristiche, ma tenendo sempre al centro del racconto l’algoritmo predittivo e la sua influenza sulla società.

Come da tradizione videoludica, i vecchi capitoli della serie ci permettevano di vestire i panni di individui specifici e ben delineati: un criminale egocentrico e dissociato nel primo, un giovane ribelle idealista nel secondo. Entrambi usavano le loro straordinarie capacità informatiche per hackerare i software della Blume, una grande multinazionale dell’HighTech, con finalità spesso opposte: il primo si faceva giustizia da solo in un mondo privo di speranze e nichilista; il secondo lottava «quasi» pacificamente per una rivoluzione nel settore della tecnologia, in una sorta di nuovo ‘68 fatto di tablet, graffiti e glitch grafici. In Legion, come suggerisce il titolo stesso, saremo invece chiamati a impersonare dinamicamente decine, centinaia, migliaia di persone: l’unico limite è la volontà di chi gioca.

Nel gioco affronteremo dunque i fascismi liberali di un’Inghilterra di un ipotetico futuro che non pare divergere troppo da quello oggi immaginabile: al grido di mercato, patria e tecnologia, frotte di milizie private hanno sostanzialmente esautorato la polizia di Scotland Yard, felice di trovarsi a fianco truppe capaci di zittire chiunque con manganello e scariche elettriche.

Il compito dei rivoluzionari del Ded Sec, il gruppo terrorista che difende i cittadini oppressi, è quello di ribaltare questo sistema di polizia: il giocatore dovrà reclutare cittadine di ogni tipo, dall’insegnante al coltivatore di api, dall’ex spia dell’MI6 alla pilota professionista, sfruttando le qualità della collettività per mettere in crisi gli interessi dei pochi potenti che detengono la quasi totalità delle ricchezze e delle risorse di Londra, riprodotta splendidamente dal team di Ubisoft Toronto.

Su questo concept sembra volersi reggere l’intera produzione: poco importa che sia molto sporco in termini tecnici; di scarso rilievo è la pochezza delle sue qualità ludiche, sia nelle missioni d’infiltrazione che di sparatorie; impatta il giusto la banalità del racconto principale. Purtroppo, non è detto che sia così anche per chi gioca, che al di là della pur brillante idea trova poca struttura con la quale dare sfogo al potenziale del concept.
Che gli investimenti dell’azienda francese siano stati più contenuti che in passato pare evidente, e che il periodo di rifinitura durante la pandemia non abbia aiutato la qualità tecnica finale sembra chiaro, e forse per chi divora con regolarità giochi a mondo aperto trovarsi di fronte all’idea del «gioca con chi vuoi» di Legion è già di per sé una ricompensa efficace, un modo finalmente originale, diverso e curioso di interagire con il mondo di gioco.

Rimane il fatto che per conoscere la rivoluzione non si può viver di sola, divertente e leggere violenza, per quanto necessaria. Bisogna dare spazio al dolore, ai lavori dietro le quinte, alle complessità dei mondi che viviamo, alle brutalità che ti tolgono il respiro e, a volte, persino la forza di lottare.
Tutti elementi assenti dal racconto molto leggero e «tardoadolescenziale» di Legion. Eppure, rinunciando al nichilismo del primo e all’infantile moderazione del secondo, Legion finalmente riesce a esprimere ludicamente la strada per cambiare il sistema che intende criticare: bisogna hackerarlo.