Le grandi compagnie tecnologiche Usa sono ormai l’interlocutore indiretto della politica americana con cui i presidenti devono confrontarsi alla pari, come con altri capi di Stato. Durante un’intervista alla Cnbc Trump – prima di difendere a livello internazionale le aziende «made in Usa» – aveva affermato che Google, Facebook e Amazon lo «discriminano» e agiscono politicamente contro di lui. «La gente parla di collusione – ha detto Trump – posso dire che la vera collusione è tra i democratici e queste società, che sono sempre state contro di me durante la mia corsa elettorale. Tutti dicevano che se non li hai dalla tua non puoi vincere. Bene, ho vinto e vincerò ancora».

L’affermazione che queste aziende viaggino sottobraccio ai democratici non è così precisa, come dimostra la guerra ormai aperta tra la candidata democratica alle primarie, Elizabeth Warren e il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg.

A PREOCCUPARE ZUCKERBERG è il piano di Warren di «fare a pezzi» i big dell’hi-tech. Il progetto è stato presentato a marzo e prevede, tra le altre cose, di evitare nuove fusioni e di imporre alle aziende con un fatturato superiore ai 25 miliardi, di scindersi per evitare che diventino monopoli e inibiscano la concorrenza e l’innovazione. Se questo progetto venisse realizzato Facebook perderebbe Instagram e Whatsapp.
Ma non è solo questo a spaventare Zuckerberg; tra le varie proposte di Elizabeth Warren, c’è anche quella di tassare con un’aliquota del 6% i patrimoni superiori al miliardo di dollari.

QUESTA PROPOSTA ha fatto sorridere solo Bill Gates che ha invitato tutti i multi miliardari a farsi due conti e constatare che anche senza quel 6% i loro patrimoni non verrebbero davvero intaccati; il resto dei capi delle big tech non ha sorriso. Il più preoccupato di tutti sembra Jeff Bezos, a capo di Amazon, noto per essere l’uomo più ricco del mondo e per pagare quisquilie o niente in tasse.

Nell’anno fiscale 2018 Amazon ha registrato quasi 11 miliardi di dollari di profitti, e nonostante ciò non ha pagato nulla, anzi: ha avuto un «piccolo» credito fiscale, 129 milioni di dollari. In un comunicato, Amazon ha ricordando che le tasse si pagano sui profitti non sugli incassi e i profitti di Amazon sarebbero ancora «modesti» a causa della competizione e dei pesanti investimenti.

BEZOS NON MENTE quando dice di non pagare legalmente le tasse: se può farlo è grazie a un sistema che offre sgravi sostanziosi tramite gli investimenti in ricerca, in macchinari e tramite il meccanismo delle stock options assegnate al management. Tramite il metodo delle stock options l’azienda concede delle azioni ai propri dirigenti che possono rivenderle quando il valore aumenta.

QUESTE AZIONI assegnate qualche anno prima, e rivendute ad Amazon a un prezzo esorbitante, a livello contabile fanno crescere in modo esponenziale le spese aziendali riducendo il reddito soggetto a tassazione. Questo meccanismo, che avvantaggia tutte le corporation, contribuisce sia all’aumento del valore aziendale sia al crollo dell’imponibile fiscale. Il meccanismo è stato additato come esempio negativo per eccellenza da Bernie Sanders, che ha citato Netflix, GM e Goodyear.

IL SENATORE SOCIALISTA ha preso di mira Netflix in un tweet, accusando la società di pagare meno in tasse di quanto sia il costo di un abbonamento mensile al servizio che offre. «Il tuo abbonamento Netflix da 8,99 dollari – ha scritto Sanders – è più di ciò che la società ha pagato l’anno scorso in tasse federali (niente). Stiamo per fare in modo che le grandi aziende paghino finalmente la loro giusta quota». A essere paradossalmente d’accordo con il socialista Sanders, è proprio Donald Trump. Peccato che The Donald sembri non accorgersi che queste dichiarazioni dei redditi a somma zero siano state rese ancora più facili grazie alla sua riforma fiscale del 2017. Il Tax Cuts and Jobs Act approvato dalla sua amministrazione per incentivare gli investimenti delle imprese, ne ha abbassato l’aliquota massima dal 35% al 21%.