Chi di notte guarda le stelle nel cielo contempla, in verità, il passato. Quelle luci remote che vede sopra di sé sono state proiettate, sullo schermo celeste, milioni e milioni di anni fa. Così esiste una forma di divinazione che interroga le immagini astrali non per sapere ciò che accadrà nel prossimo avvenire, né per stringere il destino degli uomini a certi determinati caratteri zodiacali, ma piuttosto per contemplare le stesse forme storiche dell’immaginazione umana. In che modo? È questo il più prezioso metodo divinatorio a cui ci ha iniziato, nel secolo scorso, Aby Warburg, insieme ad alcuni studiosi del suo circolo. Non è la filologia stessa, ai suoi massimi livelli, una forma suprema della divinazione, un’arte, ancora prima che una scienza?
Il volume pubblicato ora da Einaudi nei «Millenni» (Aby Warburg, Astrologica, pp. LXXX-520, e 80,00) raccoglie gli scritti di Warburg sull’astrologia, redatti nell’arco di un ventennio, e rende perfettamente conto dell’intera complessa esperienza warburghiana. Il libro esce a cura, e con una preziosa introduzione, di Maurizio Ghelardi, studioso tra i più attenti dell’opera di Warburg a livello internazionale, che tra le altre cose aveva curato, anni fa, un’edizione di Mnemosyne, il celebre atlante di immagini a cui Warburg ha lavorato per anni. Il volume è arricchito, inoltre, da numerose bellissime tavole iconografiche. Lo stile dei saggi è eterogeneo: si va dal chiaro tono dimostrativo dei testi giovanili (quello sugli affreschi del palazzo Schifanoia di Ferrara, o la conferenza sulla cosmologia babilonese), fino agli ultimi straordinari quaderni di appunti su Giordano Bruno, a cui Warburg assegnava un posto fondamentale per la storia della cultura europea, in cui nomi e sentenze, citazioni e immagini si attraggono secondo un proprio ordine evocativo irresistibile, in cui è possibile riconoscere tutta l’originale potenza analogica del pensiero dello studioso.
Sono passati novant’anni da quando il grande filologo Giorgio Pasquali, poteva lamentare che alla morte di Warburg solo pochi universitari in Italia conoscevano il suo nome, prevalentemente identificato con quello della celebre biblioteca. Warburg è uno di quei rari nomi a cui si associa non solo la biografia di uno studioso di genio, ma anche, soprattutto, un fare, un metodo tra i più innovativi e fecondi nelle scienze umane del Novecento, che ha saputo revocare con un gesto i confini tra le discipline accademiche, indicando una zona che è al di là dell’antropologia, della storia delle religioni, della psicologia, della storia dell’arte, della filosofia. Ma che rapporto ha l’astrologia con il metodo di Warburg? Perché la scienza astrologica lo ha interessato così ossessivamente, tanto che ha continuato a scriverne nel corso di vent’anni?
Anzitutto l’astrologia non è un oggetto tra gli altri della ricerca warburghiana. Gli scritti raccolti, così ricchi di intelligenza mercuriale e di erudizione, testimoniano non solo una duratura ‘attrazione’, ma anche il ruolo fondamentale che astrologia e divinazione hanno nel sistema di pensiero dello storico dell’arte tedesco. Uno dei suoi interessi centrali riguarda, come noto, la sopravvivenza degli dèi antichi: prima ancora degli uomini, sono i nomi e le immagini erranti di alcuni dèi a migrare, nei secoli, attraverso tutta l’Europa, contaminando ogni purezza nazionale o storica. Il cielo greco era trafitto di miti, una vasta cupola celeste in cui dèi, animali, e perfino parti del corpo umano, brillavano catasterizzati, trasformati in stella. Si comprende facilmente come la sopravvivenza di questo cielo dovesse rappresentare un oggetto di straordinario interesse per Warburg, segno della mobile e fugace essenza divina.
Franz Boll, suo amico e collaboratore, ha affermato come, nell’astrologia antica, sia in questione la «comprensione storica dell’immagine del mondo». Ciò vale, senz’altro, per Warburg, ma si può forse rovesciare la formula e vedere come, per lui, sia centrale anche la «comprensione storica del mondo delle immagini». La divinazione è fondamentale per capire la storia della cultura umana poiché è, innanzitutto, un linguaggio per immagini. Il mondo si dà, agli antichi mantici, prima di tutto come una smisurata e incontenibile capacità di creare immagini e forme di ogni tipo. All’origine del pensiero umano – non importa se filosofico o scientifico, poiché sono ancora indistinti – vi è anzitutto questa attitudine di ogni cosa a farsi immagine, che siano gli astri, il volo di uccelli o il fegato estratto da una pecora. Il modo più originario di scrivere, per la psiche, è leggere. Scorgere un’immagine e dare un nome: ecco l’inizio della cultura, in quello che Warburg chiama «spazio del pensiero nella distanza tra soggetto e oggetto» (p. 271). Ciò che ci fa riconoscere un orso o uno scorpione in cielo è anche ciò che, improvvisamente, ci fa vedere uno strano volto mostruoso nelle crepe di un muro. È veramente lì o siamo solo noi a vederlo? Certo però il nostro sguardo, quando si poserà lì, rivedrà sempre quell’immagine, e distinguerà nell’ammasso disordinato della materia qualcosa come un’espressione vivente: il biomorfismo.
Da qui il legame con l’arte pittorica, che non è una disciplina separata dalle altre, ma semplicemente il luogo privilegiato in cui antropologia, filosofia e psicologia umane si mostrano in immagini. È nell’immagine che si dà l’interdisciplinarità – o meglio, è nelle immagini che si può osservare il limite e la disfatta di ogni disciplina separata: «Tra la storia dell’arte e lo studio delle religioni si stende ancora un territorio incolto, ricoperto di frasi sterili. L’auspicio è che menti lucide, alle quali sarà concesso di giungere più lontano (…) possano incontrarsi a un comune tavolo di lavoro all’interno del laboratorio di una storia delle immagini come parte di una più generale storia della cultura» (p. 272).
Astrazione matematica e superstizione, sicuro orientamento nel mondo e assoggettamento smarrito alle forze impersonali del destino; scienza e magia, aruspicina e diagnostica medica. C’è stato un momento in cui questi gesti non erano contrapposti, come oggi ci appaiono, e non erano marcati da razionalità o irrazionalità, progresso o reazione, strumenti poveri e inadatti a comprenderli. Uno dei grandi insegnamenti di Warburg è consistito nel mostrare come tutte queste non siano che polarità di un’unica tensione psicomorfica, di un’unica capacità immaginativa, e come storicamente, di volta in volta, tali polarità vengano isolate tra loro e contrapposte. Il pensiero per immagini non è un pensiero concettuale. L’interesse inesauribile, per la storia della cultura occidentale, di tale forma del pensiero, che astrologia e divinazione condividono con la storia dell’arte, risiede proprio in questa possibilità di tracciare e mostrare uno spazio in cui le diverse polarità – come razionalità e irrazionalità – siano, per un attimo, sospese. Uno spazio che sia né razionale né irrazionale, né antico né moderno, né concreto né astratto, né io né inconscio. Esattamente come per il serpente – sul cui significato presso gli indiani Pueblo, con cui aveva soggiornato, Warburg ha pronunciato nel 1923 una celebre conferenza, che doveva testimoniare al sanatorio in cui era ricoverato la sua avvenuta guarigione dai gravi disturbi psichici che lo avevano afflitto –, si tratta di afferrare la tensione ancora carica di quell’immagine, che ammala e che cura, che uccide e che vivifica. È il nostro gesto, quando lo afferriamo fulmineamente, che decide ogni volta se quel serpente ci guarirà o, piuttosto, se si rivolgerà contro di noi e ci avvelenerà. Così è per il cielo, poiché «osservare il cielo è la grazia e la dannazione dell’umanità» (Il rituale del serpente, Adelphi 1998, p. 26).