Per avere un’idea della 26esima Conferenza Internazionale sulla Riduzione de Danno (RdD) che si è appena chiusa a Porto, è utile leggere il documento siglato da 329 associazioni, in cui – non certo per la prima volta – il mondo della Riduzione del Danno (RdD) invoca una riforma radicale delle politiche globali, ma che per la prima volta dice senza mezzi termini che è colma la misura per quanto concerne il governo globale delle droghe: l’UnoDc non può più esserne il regista. Perché è una agenzia di lotta al crimine, e perché sotto la sua guida continua da decenni il massacro della war on drugs.

La regìa passi al Segretario generale oppure a un pool di agenzie Onu (UnAids, Oms, Unhchr, per esempio). La conferenza è stata una voce fortissima contro le politiche globali, a fronte di cifre, storie, immagini da tutto il mondo che dicono di una irrinunciabile urgenza di cambiamento: dagli omicidi extragiudiziali nelle Filippine, alla crisi dell’Aids nei paesi che non hanno nel tempo sviluppato buone politiche di RdD, fino alla crisi del fentanyl negli Stati uniti, dove si cerca di risalire dai guasti della guerra alla droga. E mai come in questa conferenza – la più affollata di sempre, secondo Harm Reduction International, con oltre 1200 delegati di 90 paesi si è dimostrato come la RdD sia l’alternativa strategica all’attuale impianto proibizionista: plenarie e sessioni specialistiche hanno declinato con grande evidenza la doppia natura della RdD, politica e paradigma, da un lato, e pratica concreta dall’altro.

Due facce inscindibili che ne sono la forza, due dimensioni di uno stesso approccio che a Porto hanno ritrovato – e non sempre è stato così evidente – la loro coesione. Decriminalizzare e rispettare i diritti umani e insieme governare socialmente il fenomeno e i rischi che porta con sé con efficacia: è possibile, è realistico. L’esempio è rappresentato proprio dalla crisi del fentanyl: una molecola pericolosa, è vero, ma che si nutre di un sistema impreparato e della retorica proibizionista.

Con una rinnovata spinta dal basso – quella grazie a cui la RdD è nata e si è evoluta, del resto – si costruiscono modalità concrete di intervento: hanno preso parola, a Porto, decine e decine di esperienze, modelli e valutazioni su stanze del consumo, drug checking, distribuzione comunitaria del naloxone, accesso ai servizi, valorizzazione delle reti dei consumatori, che disegnano una strategia possibile e vincente. Ma che, al tempo stesso, non smettono di mettere all’angolo la politica, perché è il contesto punitivo il primo “imprenditore della sofferenza”.

Tra i tanti temi di una conferenza partecipata, accesa nei toni e ricca di storie ed evidenze insieme, ne citiamo due. I diritti umani: declinati non più nella maniera retorica che abbiamo sentito dai governi alla riunione delle Nazioni unite a Vienna, ma con la “pretesa” politica della esigibilità, e come elemento-guida delle politiche globali; parole rimbalzate dalle storie dei morti ammazzati delle favelas brasiliane alla limpida esposizione di Michelle Bachelet, capo Unhachr.

E poi il protagonismo delle persone che usano sostanze, con un salto di qualità: non solo “gruppo di interesse” che porta le sue rivendicazioni – anche, ed è importante – ma soggetto attivo e trasversale a tutti gli ambiti, portatore di competenze.

Diritti e saperi, insomma. Un esempio, la ricerca. Molte sessioni ad essa dedicate hanno incluso i consumatori, che rifiutano di essere oggetto di studio e rivendicano un protagonismo attivo e competente.

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