Ci eravamo lasciati maluccio con Sasha Waltz, un paio d’anni fa all’Auditorium romano, complice un Bolero che alla banalità di una musica ormai troppo consumata sommava la piacevolezza di una danza priva di qualunque spigolosità, confezionata per il consumo veloce di un pubblico da non disturbare. E ci si chiedeva dov’era finita la coreografa che tanto avevamo amato e si correva a vedere a Berlino o Avignone. Ricordando ancora non solo l’universo deliziosamente infantile dei suoi primi lavori o la possente trilogia dedicata al corpo all’inizio del millennio, quando era assurta alla direzione della Schaubühne berlinese. O poco più avanti, la violenza distruttiva del cataclisma evocato in Gezeiten o lo spettacolare balletto acquatico di Dido and Aeneas, la sua prima incursione nei territori del melodramma. Bastava riandare al desiderio di leggerezza che già aleggiava in Impromptus, gonfiato di un doloroso sentimento di nostalgia dalla musica romantica di Schubert, ma capace comunque di uno sberleffo alla danza bien faite (i vestiti che si strappano, i colori liquidi di cui si imbrattano i corpi, i piedi infilati in stivali pieni d’acqua…). ‘In C’ di Terry Riley è una struttura aperta di 53 figure musicali, che Waltz ha tradotto in altrettante possibilità coreografiche ugualmente aperte all’improvvisazioneÈ dunque un ritorno pacificante questo In C che Sasha Waltz & Guests, come dall’inizio si è chiamata la sua compagnia, hanno portato a Romaeuropa, di nuovo nell’anfiteatro disegnato da Renzo Piano. Anche perché la manifestazione diretta da Fabrizio Grifasi ha proposto quasi a specchio un altro ritorno graditissimo, quello di Anne Teresa De Keersmaeker, con la riproposizione di Drumming, creazione storica dell’artista fiamminga, la prima versione risale al 1998. Per di più impegnate entrambe, Anne Teresa e Sasha, in un confronto live con due opere fondative del minimalismo americano.

«IN C» prende il titolo dalla nota di do tenuta in maniera continua da una marimba (C sta per il do nella notazione musicale anglosassone). È uno dei primi brani ascritti al minimalismo. Terry Riley lo buttò giù a metà degli anni sessanta, a San Francisco, e lo registrò per la prima volta pochi anni dopo insieme a qualche amico. Una struttura aperta. Il musicologo spiegherà che la partitura è organizzata in 53 brevissime figure musicali, raccolte in una o due paginette in tutto di indicazioni che lasciano molto spazio all’improvvisazione degli interpreti. Una struttura che Waltz ha tradotto in altrettante figure coreografiche ugualmente aperte all’improvvisazione dei danzatori, liberi di determinare sulla scena una propria sequenza ma senza tornare indietro rispetto all’ordine progressivo stabilito dalla coreografa.

A ESEGUIRLO è qui l’Ensemble Casella del conservatorio dell’Aquila, quasi l’organico di una piccola orchestra, archi e fiati, percussioni e anche una chitarra elettrica, di quelle chiamate anche wind band. Se ne stanno schierati su un lato della scena tutti vestiti di nero, a fare contrasto cromatico con i danzatori che si presentano in controluce sul palco, sagome nere contro il fondale rosseggiante, quasi cercando ognuno il proprio posto; ma poi rivelano leggeri costumi dai colori pastello, calzoncini e camicetta, in sintonia con il minimalismo soft di Terry Riley. I gesti attingono visibilmente a un repertorio prefissato e sembrano svolgersi tutti su un piano orizzontale, anche quando a guidare il corpo è uno slancio verso l’alto delle braccia che sembrano nuotare nell’aria. Dove piccole corse si alternano alle rotazioni e ai piegamenti. Ciò che cattura lo sguardo è la polifonia della costruzione creata dalla coreografa di Karlsruhe, dove ognuno dei danzatori sembra andare da solo ma in accordo con tutti gli altri, a misura del fatto che l’improvvisazione è stata ormai largamente fissata.

«Drumming» di Anne Teresa De Keersmaeker

DOBBIAMO confessare un vecchio amore per Anne Teresa De Keersmaeker, si osservava già al tempo in cui la coreografa fiamminga presentava per la prima volta questo trascinantissimo Drumming, ritmato dalle tecniche percussive apprese in Ghana da Steve Reich. E con lo sguardo di poi, lo spettacolo ci può apparire oggi una sorta di chiave di volta nel lungo percorso artistico della coreografa, che peraltro tornava alla musica ripetitiva del compositore da cui era partita, dopo l’esperienza formativa del Mudra di Béjart. E tornano in mente naturalmente i quattro movimenti sulla musica di Steve Reich dell’ipnotico Fase danzato a specchio insieme a Michèle Anne De Mey, entrambe poco più che ventenni. Germe dello spettacolo che sarebbe nato di lì a poco, l’indimenticabile Rosas danst Rosas, e della sua nuova compagnia. Danzavano Rosas, cioè se stesse, con sfacciata energia femminile e l’inesausta capacità di tirar fuori un forte contenuto emozionale da gesti apparentemente minimalisti e ripetitivi, ma con un impegno fisico tirato fin quasi alla spossatezza. Quasi a opporre un gratuito dispendio di energia alle leggi di economia del mondo com’è.
In Drumming, i musicisti dell’ensemble Ictus stanno allineati sul fondo, dietro la fila ininterrotta delle percussioni segnalata da una ideale barriera di neon verticali. All’inizio è uno solo di essi a dare il tempo a una danzatrice che espone la frase di base su cui è costruita la coreografia, ma progressivamente questo nucleo elementare si va allargando, e con il numero degli interpreti cresce anche l’intensità percussiva dei bonghi e la qualità della danza. Giacché la coreografa non si accontenta ovviamente di aderire all’ossessiva ripetitività della musica ma le risponde con una più complessa struttura che a partire da quell’unica frase si espande sul tappeto srotolato sulla scena nei movimenti circolari che spingono i corpi verso l’alto. Poi ai bonghi si aggiungono le marimbe, e anche un flauto e le voci di due solisti che alleggeriscono la pesantezza implacabile delle percussioni. E col cambiare del colore della musica cambia anche quello della danza, i corpi si fanno più ravvicinati. Per un attimo sembra che lo spettacolo vada spegnendosi. Ma no, ecco che rientrano i bonghi e risale il livello sonoro ed è come una nuova ondata che si riversa sulla scena. E a quel punto vorremmo quasi che non finisse più.