Sul palcoscenico di certi teatri di provincia si possono ancora leggere, verniciate sul muro, scritte come «Silenzio! Il teatro è cosa seria». Walter Felsenstein, un nome leggendario nel mondo dell’opera, sarebbe senz’altro d’accordo: nessuno più di lui, forse, ha vissuto il teatro come un luogo sacro. Austriaco di nascita e Wilhelm Meister per vocazione, Felsenstein ha fatto una lunga gavetta tra la Germania e la Svizzera prima come attore e poi come regista sia nel teatro cantato che in quello parlato, sempre esposto alle incerte vicende politiche degli anni Trenta. Espulso nel 1938 dalla Reichtheaterkammer, l’organizzazione che controllava tutti i teatri tedeschi, a causa della moglie non-ariana, fu riportato nel 1940 allo Schiller Theater di Berlino, che godeva di una certa autonomia, dal famoso attore Heinrich George. Negli anni della guerra lavorò anche con Herbert von Karajan all’Opera di Aachen e allestì a Salisburgo una edizione delle Nozze di Figaro di ampia risonanza.

Nella Berlino distrutta e occupata dagli Alleati, un gruppo di cantanti e attori in cerca di un nuovo inizio si rivolse a Felsenstein perché assumesse la guida della compagnia. Le autorità militari sovietiche concessero loro, nel 1947, un vecchio teatro bombardato, che sarebbe diventato il terzo teatro d’opera di Berlino, la Komische Oper, destinato a ospitare ogni genere di teatro musicale, dall’opera all’operetta al Singspiel, tutto in lingua tedesca. Da allora fino alla morte, nel 1975, Felsenstein fu l’anima, il padrone assoluto della Komische Oper, non imponendo ma plasmando in ciascun componente del teatro, cantante, musicista, macchinista o impiegato, uno stile di lavoro, una visione del teatro, una forma di espressione davvero unica. La fama della Komische Oper, a cominciare dalla Fledermaus di Johann Strauss Jr. che inaugurò l’attività del teatro nel 1947, oltrepassò ben presto i confini di Berlino Est, nonostante la guerra fredda, tanto che la prima raccolta degli scritti teatrali di Felsenstein fu pubblicata nel 1975 negli Stati Uniti, grazie all’entusiastica ammirazione di un direttore d’orchestra americano di origini viennesi, Peter Paul Fuchs, che come tanti altri appassionati superava i mille ostacoli burocratici pur di vedere le nuove produzioni della Komische Oper. Il carattere eccezionale della lezione teatrale di Felsenstein, e anche l’attualità della sua visione dell’opera, è a nostra disposizione adesso, grazie a una crestomazia dei suoi scritti, sparsi in diverse raccolte e scelti per l’occasione dal più in voga rappresentante italiano del cosiddetto «teatro di regia», Damiano Michieletto, Teatro totale Scritti e colloqui sul teatro musicale 1947-1974,  traduzione di Silvia Albesano, Il Saggiatore pp. 232, € 29,00).

L’idea di fondo di Felsenstein era che l’arte teatrale nasce prima di tutto dalle ragioni che spingono un personaggio a dire quello che dice, a mettersi in relazione con un altro personaggio o a trovarsi in una determinata situazione. E non ha alcuna importanza che si esprima cantando o parlando, perché per Felsenstein non c’era differenza tra opera e dramma poetico. Il lavoro del regista, che soprattutto nel mondo dell’opera si stava all’epoca emancipando dalla sua funzione meramente pratica per raggiungere una dimensione espressiva autonoma,  dopo i primi esperimenti visionari di Adolphe Appia e Edward Gordon Craig a inizio secolo, consisteva nel mettere in condizione l’interprete di formare dentro di sé, con tutti gli strumenti a sua disposizione – canto recitazione e movimenti del corpo – una visione drammaturgica che gli permettesse di restituire, in ogni momento della rappresentazione, la peculiarità del personaggio. «L’interprete deve farmi credere – scrive Felsenstein – che ciascuna delle sue espressioni scaturisca da una motivazione riconoscibile, e l’emozione che lo induce al canto derivi solo da questa motivazione. E che lo induca a cantare proprio come ha prescritto il compositore».

La principale battaglia combattuta da Felsenstein contro cantanti e direttori d’orchestra, adagiati su una visione convenzionale dell’opera, era motivata dalla loro mancanza di coscienza teatrale, dal loro accomodarsi in una dimensione puramente edonistica della musica. «Nel mio lavoro – osserva Felsenstein – mi imbatto di continuo in uno degli errori più gravi, che non solo viene commesso inconsapevolmente, ma non è riconosciuto in quanto errore: considerare la musica come un dato di fatto e non come una manifestazione del tutto insolita». Malgrado l’opera abbia sempre camminato sullo stretto crinale tra parola e musica, procurandosi così azzardo e fascino, Felsenstein non ha mai smesso di predicare la fondamentale unità drammaturgica del teatro lirico. Le parti più avvincenti del libro, infatti, sono quelle dedicate a alcuni momenti cruciali nella storia di questo genere musicale, i rapporti tra Don Giovanni e Donna Anna, la concisa e spietata capacità di Leos Janacek di esprimere l’indicibile, la ricostruzione culturalmente precisa del mondo di Carmen. A Felsenstein era aliena qualsiasi forma di simbolismo o rilettura metaforica, per lui ogni opera conteneva una verità assoluta che spettava al lavoro degli interpreti portare a galla, pur sapendo che non sarebbe mai arrivato a svelare fino in fondo i segreti nascosti nel testo.

Lo stile di Felsenstein è ben sintetizzato da questo episodio, che riflette quel per lui il teatro non deve essere: «Molti anni fa incontrai un giovane regista che in precedenza mi aveva fatto da assistente e che ritenevo dotato. Mi raccontò orgoglioso che al momento stava curando l’allestimento del Lohengrin. «Come lo fa?» chiesi sinceramente interessato al suo punto di vista. Mi aspettavo di apprendere qualcosa sulla sua concezione, per esempio a proposito del comportamento del coro all’arrivo del cigno, o sulla preparazione del protagonista. La sua risposta fu: «In pendenza». «Come scusi?» «Porto in scena l’opera su un palcoscenico inclinato – interessante, vero?» disse lanciandomi uno sguardo fiero. «Ah» feci io dopo una breve pausa, per poi chiedergli notizie della sua famiglia».