Costituita da più di 300 stampe d’epoca e da un centinaio di documenti, Walker Evans al Centre Pompidou (fino al 14 agosto) è la prima retrospettiva tematica in Europa. Organizzata attorno alla nozione di vernacolare, la mostra parigina sottintende gli oggetti di espressione popolare impiegati a fini utili. Spesso è qualcosa che si trova già in casa, o fatta a mano; la parola esprime, sosteneva Evans, ciò che voglio dire, la bellezza delle cose quali esse sono.
Sia la mostra che il catalogo sono curati da Clément Cheroux (Senior Curator of photography al San Francisco Museum of Modern Art) e dal dipartimento di fotografia del Museo nazionale di arte moderna.

IL PERCORSO è ricostruito dal curatore secondo un principio diacronico, sulla falsariga di uno dei ritratti della serie realizzata da Evans in metropolitana.
Un uomo e una donna sono seduti di fianco nello stesso vagone: lei – alla destra dell’immagine – pare più grande di lui. Il suo volto è semicoperto da un cappello scuro. Vediamo solo l’occhio sinistro, che guarda in basso verso l’esterno del fotogramma, nell’atteggiamento di una persona che non vede niente e pensa con un angelo sulla spalla. Sembra seduta su uno sgabello più alto di quello su cui è seduto l’uomo. Ma quel vagone ha una sola panca, ed entrambi siedono sulla stessa.
E lui è sproporzionato, più piccolo, ha un cappello chiaro, la fronte scoperta, guarda verso sinistra, il bordo dell’immagine e, a differenza della donna, sta scrutando qualcosa. Gli occhi presenti nella fotografia, in totale, sono tre: il quarto è quello del fotografo?
Evans portava con sé un marchingegno nascosto nel cappotto che gli consentiva di fotografare le persone, senza che se ne accorgessero. Il quarto occhio quindi siamo noi, seduti di fronte, nel tempo.

Selfportrait

Un processo apparentemente semplice. Tuttavia Evans accumulava, rimaneggiava, non gli interessavano i dettami dell’epoca, l’inviolabilità del negativo di Cartier Bresson, il reportage. Walker Evans era, a suo modo, uno scrittore. Sarah Greenough, conservatrice della collezione di fotografie alla National Gallery di Washinghton, ha notato per prima che questa fotografia non era originata da un solo negativo: i due passeggeri in metropolitana erano stati ripresi in momenti differenti e, attraverso il montaggio di due fotogrammi vivevano un nuovo spazio condiviso. Ecco che il curatore – con lo stesso escamotage – scava e accosta tempo e spazi dell’autore più influente del XX secolo.

EVANS COLLEZIONAVA insegne pubblicitarie e cartoline, in costante dialogo con le sue fotografie. Scriveva pezzi critici di cinema e arte (non firmati) per il Time. È diventato direttore del dipartimento di fotografia di Fortune dal 1945 al 1965, anno in cui ha lasciato per insegnare a Harvard. Tutto questo è presentato dal punto di vista dell’evoluzione dell’autore: la sua traduzione della realtà, l’unica possibile. Chéroux mescola tutto, secondo il tipico approccio funzionale all’esibizione dell’opera di un artista che procede per continui aggiustamenti, fino a quando il suo lavoro trova una forma definitiva. È il caso dei ritratti in metropolitana, realizzati tra il 1938 e il 1941 ma conclusi in una serie solo nel 1966, in occasione della esposizione al MoMa e della pubblicazione del libro Many are called.

QUESTO CRITERIO espositivo restituisce la complessità dei temi ricorrenti in Evans: l’insistenza nel sottolineare la derivazione del suo metodo da quello di Flaubert, la sparizione dell’autore nell’oggettività del trattamento della realtà, la dissimulazione della composizione che – seppure precisa, impeccabile e virtuosa – non sovrasta mai l’oggetto rappresentato. Niente chiaroscuri ammiccanti, nessuna confezione artistica elaborata. E tuttavia, l’effetto prodotto dall’opera di Evans, quell’utile, domestico, popolare è subito identificabile, come lo è un vaso o una bottiglia dipinta da Morandi: si tratta sempre inequivocabilmente di Morandi, così come le case in legno ai bordi della strada, la maniera in cui il commerciante dispone la merce nella sua vetrina, la forma della Ford T, la lamiera ondulata, la tipografia delle pubblicità della Coca Cola restano e sono il mondo di Walker Evans: una figura prossima allo straccivendolo celebrato da Baudelaire che accumula gli scarti della società industriale comme un avare trésor, scrive Cheroux citando il poeta, nel prezioso saggio del catalogo.

RIGUARDO LE AMICIZIE, Walker Evans aveva fortuna, ricordava James R. Mallow nella biografia. Commesso in una libreria di Manhattan aveva incontrato «persone che gli avevano permesso di progredire e apprendere ciò che gli era utile». Del resto a New York nel 1930, scrive Jerry L. Thompson, il mondo della cultura era abbastanza piccolo, tanto che i suoi membri si incontravano regolarmente in un locale di Harlem o di Brooklyn, a una festa al Greenwich Village o presso l’elegante salotto letterario tenuto tutte le settimane da Muriel Draper. In anni più recenti, il fotografo tedesco Michael Schmidt, per dissipare romantiche illusioni su come si costruisce la notorietà, in generale, avrebbe ribadito una delle sue massime dissacranti: il lavoro di un artista è al 90 per cento fatto di relazioni. Non si può dire non sia stato anche il caso di Evans e delle sue frequentazioni, soprattutto quella decisiva con lo storico d’arte Lincoln Kirstein.
Kirstein aveva viaggiato in Europa e studiato a Harvard; i suoi compagni di studi sarebbero diventati chi direttore di museo, chi membro del consiglio consultivo del MoMa, chi direttore di una galleria di fotografia.

Lo stesso Kirstein era molto influente all’interno del consiglio del MoMa, dove Evans avrebbe esposto qualche anno più tardi. Quando ancora pensava di diventare uno scrittore, Evans era stato attratto dalla cultura francese. Alla fine della carriera diceva di se stesso: da giovane sono stato un anti-americano. Partito per la Francia nel 1926, vi era rimasto un anno, e lì, grazie a Berenice Abbott, aveva scoperto Eugène Atget e quello che, in seguito, avrebbe definito lo stile documentario lirico. Ma era necessario occuparsi dell’America, così come aveva fatto Edward Hopper: diventare un autentico artista americano. Il concetto stesso era nell’aria. Sempre Kirstein aveva guidato Evans da Baudelaire a Whitman, uno stile trasparente, senza «arte», senza alcun ornamento; da Eugène Atget a Matthew Brady, dal romanticismo europeo al puritanesimo americano, scrive Didier Ottinger, e così fino all’architettura, alle fotografie delle case vittoriane realizzate nei dintorni di Boston, al fondamentale American Photographs. Tanto che già nel 1931 Evans scriveva che l’America è il focolare naturale della fotografia e anche il suo lavoro alla Farm Security Administration, campagna di ricerca e archiviazione sovvenzionata dal governo negli anni del New Deal, voleva essere esclusivamente arte, disinterested.

SAREBBE STATO uno dei primi fotografi della sua epoca a impegnarsi in un lavoro meta-fotografico, diventando punto di riferimento per gli artisti della Pop Art, dell’arte concettuale e anche della Picture Generation, nonché uno degli artisti più citati del secolo scorso: da Andy Warhol a Dan Graham, da Sherrie Levine a Jeff Wall. E nel corso del tempo non solo avrebbe rappresentato l’America e la celebrazione dell’effimero, ci avrebbe reso consapevoli e degni del nostro anonimato.