«Cinque paesi in sei giorni di tour!», ci dice al termine del concerto Wadada Leo Smith, e ride compiaciuto come un atleta che ha realizzato un’impresa sportiva. «E ho settantun anni!», precisa divertito. Wadada ha il vento in poppa. È un maratoneta: e sulla distanza è arrivato, anche come riconoscimenti, in quelle posizioni di testa che artisticamente occupava fin dall’inizio.
Nato nel ’41 nel Mississippi, cresce nel mondo del blues del Delta. È negli anni sessanta, paradossalmente mentre presta il servizio militare in Italia, che assiste ai suoi primi concerti di jazz. Ma poi a Chicago studia con Roscoe Mitchell e nel ’68 è già in sala di incisione con gli uomini dell’AACM: Braxton, Muhal Richard Abrams, Leroy Jenkins. Negli anni settanta Leo Smith, grande esploratore fra l’altro della dimensione in solo dell’improvvisazione, si afferma come un’icona del post-free, di quella che si prende l’abitudine di chiamare «musica creativa», anche in forza di un’espressione che proprio Smith contribuisce a far entrare nell’uso (Creative Music è nel ’72 il titolo del suo primo album personale, e nel ’73 di una raccolta di suoi scritti teorici).
Nella seconda metà dei settanta è un pioniere del rapporto tra avanguardia neroamericana e improvvisazione radicale europea, e un pioniere del contatto con improvvisatori della Germania dell’Est. Ma di tutto questo si accorge un pubblico di nicchia, e dopo gli anni settanta l’avanguardia viene oscurata dal mainstream. Dalla seconda metà dei novanta la Tzadik di John Zorn pubblica o ristampa Leo Smith, mentre Wadada con Henry Kaiser è protagonista di fortunate rivisitazioni del Miles Davis elettrico, e Leo Smith acquista una inedita visibilità.
Veniamo all’oggi: il referendum 2012 del mensile ‘Musica Jazz’ lo ha proclamato musicista dell’anno, e perTen Freedom Summers (Cuneiform), ambizioso lavoro in quattro cd imperniato sulle lotte per i diritti civili e contro la discriminazione razziale, ha recentemente sfiorato un Pulitzer per la musica. Wadada è stato un pontiere tra improvvisazione neroamericana ed Europa: all’interno del tour quasi completamente in solo del trombettista, intelligente allora l’idea di Novara Jazz di ritagliargli un set con Eco d’Alberi, quartetto formato da alcuni dei migliori giovani improvvisatori italiani: Edoardo Marraffa, sax tenore e sopranino, Alberto Braida, piano, Antonio Borghini, contrabbasso, e Fabrizio Spera, batteria. Solo un paio di loro aveva già avuto occasione di suonare con Wadada, il che aggiungeva all’incontro quell’elemento di freschezza e di rischio che è il sale della musica improvvisata.
L’improvvisazione di Wadada è sempre estremamente pregnante: Leo Smith è concettoso nel linguaggio improvvisativo, dove mostra una consistenza, un senso della sintesi, dell’espressione bruciante che ha pochi paragoni, e verrebbe da dire che è concettoso già nel suono, robusto, virile, spesso agro, mai respingente, sempre con qualcosa di fondo di caldo e cordiale. Mai banalmente solista ma sempre impegnato a creare senso. Ma pieno di senso si è mostrato, nel confronto impegnativo con una maestro come Wadada, il free di Eco d’Alberi, maturo, pensato, denso, ma senza ricorso alla facile saturazione e visceralità, fatto di interplay intenso quanto nitido nell’emergere distintamente dei singoli strumenti, un free palpitante che sembrava – più che all’improvvisazione radicale europea – fare tesoro della grande lezione della new thing storica. Tutti straordinariamente bravi, a cominciare da Marraffa con dei formidabili fraseggi fantasmatici e profondi e con un suono perentorio, pieno, che ha lasciato veramente impressionati.